Anche quest’anno, come per lo scorso, causa le alte temperature ed il pericolo valanghe, la stagione delle cascate nelle nostre zone si è rivelata ridottissima, ed a meno di migrare fino in valle d’Aosta od in Trentino è necessario saper cogliere il momento giusto. Gennaio è quasi al termine, l’ultima domenica si avvicina, un controllo al meteo, dice bel tempo e probabilità valanghe quasi azzerata, bisogna scegliere qualcosa in alto, mi ricordo la “Madre” in Val d’Avio una cascata vista lo scorso anno a stagione inoltrata e con il ghiaccio ancora in buone condizioni, ritengo sia fattibile, mi accordo con Sergio ed alle 5 del mattino partiamo. Poco prima delle sette dobbiamo abbandonare la macchina al bivio per Malga Caldea sopra Temù; infilandomi il pesante zaino sulle spalle comincio a pensare che la cosa non sarebbe andata liscia come preventivato ma mi sento ottimista. L’alba non è lontana ed il riflesso della neve rischiara la strada; è forse per questo motivo che dimentico la frontale sul sedile dell’auto, partiamo. La neve, anche se con evidenti tracce, ad ogni passo sprofonda ed è molto faticoso avanzare; sono le 9 e 30 quando finalmente vediamo l’inizio della galleria dell’Enel. In inverno viene lasciata aperta, entriamo e ci solleva lo spirito, ben illuminata e con una temperatura clemente; ci accorgiamo pure come sia piacevole comminare su di un terreno compatto e pianeggiante. Dentro di me rifletto su quanto mi appresto a fare, amo le cascate di ghiaccio nonostante in alpinismo siano un’esperienza sicuramente tra le più impegnative e con pericoli oggettivi che mutano in continuazione. La formazione di una cascata tutti gli anni è diversa, molto legata alla temperatura dell’aria, al tipo di ghiaccio ed a seconda se si gela in periodo piovoso o asciutto. Ne ricordo molte, ognuna di diverso aspetto, appoggiate o verticali, ancorate alla roccia oppure completamente staccate; altra cosa è quando crollano e si riformano, sono informi, il ghiaccio compone agglomerati simili a cavolfiori; una cascata di questo tipo pare tranquilla invece è la più pericolosa poiché lascia spazio a muretti verticali con il ghiaccio inconsistente ed anfratti colmi di neve dove è veramente difficile trovare posti affidabili per l’assicurazione. E poi il freddo, ricordo quando capitano soste lunghe ed il vento gelido pare trapassarti da parte a parte, e ti senti fortunato se trovi un appoggio per i piedi perché di frequente tocca restare appoggiato solo sulle punte dei ramponi e dopo un poco i muscoli delle gambe sembrano scoppiare. E’ capitato che mi sia chiesto, “diavolo, ma chi te lo fa fare!”; ma le ragioni sono molteplici e molto convincenti, l’ambiente immacolato che circonda con il candore della neve contaminata solo dalle proprie tracce, naturalmente verso cascate che non hanno brevi avvicinamenti, e poi quelle muraglie effimere di ghiaccio che variano dal verde al blu; sembra impossibile ma racchiudono ed incatenano in seno grandi cascate d’acqua che, ammirate in altre stagioni, è impensabile pensare di imbrigliare. E che dire della solitudine e del silenzio rotti solamente dalla voce del tuo compagno e dal tonfo sordo delle picche che entrano nel ghiaccio; ragioni che, come dicevo, da sole bastano ad annullare il pericolo che si può correre e la fatica che opprime il fisico. Dopo circa mezzora ristoratrice nella galleria arriviamo all’uscita; ci accorgiamo che i sibili soffusi che si udivano nella galleria altro non erano che il rumore del vento vorticoso e incessante che spazzava tutto all’esterno. Ci guardiamo, indubbiamente non è giornata, ma lungi da noi pensare di rientrare senza aver provato a piantare le picche nel ghiaccio; svelti prepariamo l’attrezzatura, mettiamo i ramponi, appendiamo tutta la ferramenta all’imbrago, ricarichiamo lo zaino, finalmente un poco più leggero, e usciamo. Lo spettacolo che ci attende lascia senza fiato, il cielo azzurro reso ancora più limpido dal vento e sotto di noi il lago, una distesa di giaccio e neve completamente immobile, sopra la sponda sinistra le cascate Funicolare e Madonnina e sulla destra la nostra meta, la cascata Madre, una grande muraglia di ghiaccio ben formato forse più verticale di quello che ricordavo; tutto il resto è coperto da un’alta coltre di neve bianchissima senza la minima traccia umana. Due cose ci fanno preoccupare, il sole che già inizia a lambire la cascata e il percorso nella neve alta, non lungo ma sicuramente faticoso, che ci separa dall’attacco. Non sbagliavamo, passa infatti quasi un’ora e mezza prima di riuscire a raggiungere la base della nostra cascata alternandoci in continuazione e spesso sprofondando fino alla vita nella neve. Quando arriviamo proprio sotto scopriamo la prima nota positiva della giornata, la cascata essendo larga ma incassata tra due muraglie di roccia resta nascosta dal sole ed il vento si è calmato. Decidiamo di affrontarla nonostante l’ora avanzata, e mi accordo con Sergio; preferisco far io il primo tiro che pare più semplice e lascio a lui i tratti sovrastanti visibilmente più verticali Parto tranquillo il ghiaccio all’inizio è un po’ bagnato ma i chiodi in profondità tengono bene, è passato un anno dall’ultima cascata e mi pare un’eternità, ma a poco a poco riprendo confidenza con il ghiaccio che mi aiuta migliorando e diventando sempre più plastico. Proseguo, dopo qualche decina di metri faccio un rapido calcolo, ho solo sette o otto metri di corda, poco ma decido di fare ancora un tratto verticale, si rivela un grosso errore, uscendo dal muretto la corda finisce e mi devo adattare per forza di cose ad attrezzare la sosta in un brutto punto, pianto tre chiodi e compio il recupero di Sergio in una posizione scomodissima. Sono appeso alle picche, ed appoggiato solamente sulle 4 punte anteriori dei ramponi, ben presto arrivano i crampi ed il vento che ha ripreso forza fa vorticare la neve che mi sferza il viso e penetra nella schiena da sotto il caschetto. I guai non sono finiti, arriva Sergio e mi chiede di accollarmi anche il successivo tiro di corda, ha le mani gelate ed i guanti di ricambio giù nello zaino alla base della cascata. Al primo momento mi preoccupo ma non c’è altro da fare; riparto, muovendomi i crampi passano, il vento si calma e scopro che il tiro non è troppo impegnativo; finalmente mi sto divertendo. Mi fermo quando la corda è quasi finita, ma questa volta creo la sosta in una posizione comoda scavandomi un appoggio per i piedi, mi guardo in giro e vedo che a destra la cascata offre un passaggio meno impegnativo di quello centrale perciò mi metto tranquillo e mi godo il panorama in attesa del mio compagno. Sergio arriva velocemente le mani gli si sono scaldate e anche se un poco stanco è ben deciso ad affrontare il muro di ghiaccio che ci troviamo davanti; prende fiato per un paio di minuti e via. Tiro non semplice, lo vedo infatti mettere più chiodi del solito, ma alla fine capisco che va tutto bene poiché mi urla che sta approntando la sosta. Nel frattempo il vento ha ripreso forza e comincio pure io a non sentire le dita delle mani, ma mi muovo e cerco di salire più in fretta possibile. Quando lo raggiungo mi accorgo che non siamo ancora fuori, la fine della cascata è vicina ma il ghiaccio è mezzo coperto dalla neve, parto subito cercando di trovare il passaggio nei punti più sicuri; dopo parecchie gimcane esco al di sopra ma il manto nevoso è instabile e non offre nessuna possibilità di fare sicura. Mi dirigo verso un grosso sasso che spunta fuori dalla neve ma quando mancano un paio di metri finisce la corda, faccio liberare la sosta a Sergio ed in quel modo poco ortodosso riesco a saltare al di la del masso; ora posso recuperare, mi accorgo solo dopo qualche tempo che davanti alle mie ginocchia si è aperto un grosso foro che scende verticale sicuramente collegato alla cascata. Cercando di muovermi con cautela finisco di recuperare Sergio che prosegue fino ad un piccolo pino venti metri al di sopra, quando sento tendersi la corda tiro un sospiro di sollievo e mi tolgo da quella posizione insicura e pericolosa. Spostandomi a sinistra arrivo ad un altro alberello e pure Sergio usa la stessa tattica finché raggiungiamo dei pini dove scopriamo sollevati dei cordini, servono per le quattro o cinque calate in corda doppia necessarie per il rientro. Cercando di compiere le calate il più rapidamente possibile, finalmente arriviamo agli zaini, li recuperiamo in fretta e guadagniamo la strada del ritorno, ancora una sfortuna, scopriamo che la maggior parte delle nostre tracce sono state spazzate via dal vento ed è tutto da rifare; solo all’imbrunire arriviamo esausti alla galleria. Togliamo i ramponi, sistemiamo gli zaini e ripartiamo subito nonostante non ci sia stato tempo di mangiare e bere durante tutta la giornata e ci si senta affamati. Quando usciamo dalla galleria è ormai buio pesto, fortunatamente Sergio ha portato la pila frontale, mentre io ricordo di averla purtroppo lasciata in auto; cerchiamo di proseguire veloci e recuperiamo un poco di tempo tagliando le curve della strada lasciandoci scivolare lungo i pendii ripidi ed arriviamo a Malga Caldea. Ancora poco, sempre nella neve che cede ad ogni passo, siamo in vista dell’auto, sono le otto di sera quando la vediamo, ci pare un miraggio sicuramente dovuto alle estenuanti tredici ore dedicate alla Cascata Madre.Morzenti Davide
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