Nord Cima Brenta 6 Luglio 2008 E’ domenica Giovanni ed io siamo soli, il meteo è pessimo ma non ci fermiamo, il mio compagno ha pensato ad una meta veramente appetibile, Cima Brenta; io come sempre sono preoccupata, ho una costola dolente e sono ferma da due settimane ma non rinuncio certamente. L’incontro è alle quattro e mezza di sabato a Sabbio Chiese, poi via per Campiglio sotto ad un bel sole luminoso; piccolo stop per un panino e verso le sette siamo in Vallesinella a 1500 metri di altitudine nell’ampio parcheggio sopra il ristorante. Ci attrezziamo e partiamo, in un paio d’ore saremo in vista del rifugio, gli zaini sono pesanti ma il morale è alto ed in men che non si dica, tra una chiacchiera e l’altra, siamo al rifugio Casinei. C’è molta umidità e penalizza non poco la salita che porta al rifugio Tuckett, mi sforzo di andare veloce poiché desidero oltrepassare lo schermo del bosco ed arrivare a vedere le montagne; ricordo l’incredibile colpo d’occhio di un paio d’anni fa andando verso Cima Sella e voglio riprovarlo. Passiamo una radura e riusciamo a scorgere l’anfiteatro dei monti al di là, è solo un attimo, si prosegue ed è dopo un poco che finalmente gli alberi si diradano e lasciano il posto a bassi cespugli e grosse pietre che ci accompagnano lungo il sentiero. Finalmente posso vedere i monti e tutto è come da copione, l’inconfondibile becco di Cima Sella ci domina e con lui gli altri massicci con le rilevanti terrazze granitiche che salgono fino alle cime; il tutto incollato al cielo azzurro un poco offuscato da nuvole basse che vorticano veloci schiaffeggiate dal vento. Proseguiamo lungo il sentiero, è un vero giardino di fiori colorati e ci accompagna fino all’altopiano di inconfondibili rocce bizzarre che conduce al rifugio; sono orgogliosa dei miei tempi, è passata un’ora e quaranta e già siamo sulla porta del Tuckett a 2270 metri, notiamo che, nonostante la prospettiva di meteo molto incerto, sono parecchi gli escursionisti che troviamo nei locali del rifugio. Ci installiamo in una camera poi scendiamo a mangiare nella sala ristorante un paio dei nostri panini visto che sono le nove passate e la cucina è già chiusa, due chiacchiere poi fuori a guardare il buio scendere; il mondo è blu, all’orizzonte sono visibili solo le cime dei monti poiché un immenso letto di nebbia tumultuosa copre le valli in basso mentre il tetto del cielo è attraversato da nubi scure e frastagliate. Mi concedo un caffé poi via in branda, l’alzata è alle due e mezza, il meteo prevede pioggia verso mezzogiorno ed a quel tempo dobbiamo già essere di ritorno. Sveglia impietosa, svelti e solitari scendiamo le scale e ci prepariamo, sono le tre quando apriamo la porta e usciamo nella notte; il cielo è nero come la pece ed incredibilmente tempestato di stelle. Restiamo a bocca aperta, l’animo astrofilo di Giovanni è rapito ed incantato dalla visione e mi descrive qualche cosa della geografia stellare che stiamo ammirando. Ci scuotiamo dalla bellezza del momento e con il favore delle stelle ci incamminiamo incontro alla nuova avventura. Il pendio è ripido e presto cominciamo a calpestare neve avviandoci verso la sella di Tuckett ma deviamo verso destra un bel tratto prima, la nostra meta è infatti sul lato opposto di Cima Sella; non è difficile camminare aiutati dalle frontali e dalle stelle che a poco a poco scolorano lasciando il posto al progressivo chiarore del cielo. Improvvisamente Giovanni mi fa notare che siamo in un canale, non mi sono resa conto che le pareti rocciose si sono strette attorno a noi diventando molto scoscese, la salita per me è parecchio faticosa e cammino con i paraocchi; è vero, il canale di Cima Brenta è imboccato, sono sollevata, non pare molto ostico, infatti la neve è solida e la pendenza clemente. Continuiamo la salita divertendoci ad indovinare strani animali nelle nubi che occupano il cielo, ormai il crepuscolo è diventato un’alba che promette sole e caldo; il canale intanto si srotola e da molto stretto diventa una parete ampia ed uniformemente innevata, ora vediamo chiaramente anche l’uscita che pare essere la sella nevosa sulla sinistra in quanto il resto del muro è di sola roccia, senza un grammo di neve e, per di più, molto franoso. La grande rigola che da un bel poco ci accompagna si è tramutata in una lunga lingua di ghiaccio vivo e ci sbarra la strada che porta alla meta; Giovanni si ferma, pianta deciso le picche nel ghiaccio verde scuro e con due passi la oltrepassa poi mi dice di fermarmi. La pendenza è aumentata e non è sicuro di me, già pochi minuti prima avevo fatto una breve scivolata e non deve ripetersi, ci pensa un attimo poi mi lancia due cordini e mi assicura alle sue picche piantate nella neve. Io mi muovo, ho il fiato grosso procurato dall’adrenalina ma sono molto calma, so di non dover scivolare, pianto pure io le due picche e in un attimo sono vicino a Giovanni. La tensione si allenta, il passaggio è superato ed ora si deve pensare a proseguire. Raggiungiamo una grossa roccia, salda e rassicurante da toccare, poi alcune decine di metri parecchio ripidi tra due ali di rocce che si stringono e la sella è guadagnata. Ci voltiamo, il panorama è fantastico, in basso la parete non si vede e c’è solo il budello angoloso della fine del canale mentre i monti rocciosi davanti a noi, disposti ad anfiteatro, arrivano fino all’orizzonte. Sembra tutto un sogno, i massicci più impressionanti sono i primi a vista, la neve è raggruppata solo sui gradoni e sono circondati alla base da brevi nuvole fitte mentre le vette piatte a grandi terrazze toccano il cielo rigato da lunghi strati di colori dove, sul rosa tenue dell’alba, comincia prepotentemente a dominare l’azzurro; incantati scattiamo alcune foto poi ci guardiamo attorno. Bisogna proseguire ed è una sorpresa per Giovanni, dove pensava infatti di trovare molta neve c’è una sella rocciosa con due pareti nude ai lati. Mi spiega che portano, una alla vetta e l’altra alla via normale di discesa; “volevi la roccia mi dice ironico, eccoti accontentata!”. Ci installiamo proprio al centro della sella su di un piccolo terrazzino all’ombra di grosse rocce, depositiamo gli zaini, ci togliamo i ramponi che non servono per raggiungere la vetta di cima Brenta e fuori la corda; assicuro quindi Giovanni che sale rapido alcune decine di metri fino ad organizzare una sosta per permettermi di raggiungerlo. L’ansia che avevo dentro nel cominciare la salita come sempre se ne era va e gli appigli mi saltano agli occhi come per incanto; in men che non si dica, dopo aver superato due brevi tiri di corda su piccole difficoltà rese però pessime dall’enorme quantità di sfasciumi instabili, arriviamo alla vetta a 3150 metri di altitudine. Sono circa le sei e trenta di mattina, a turno ci mettiamo accanto alla piccola croce impiantata su di un cumulo di rocce e scattiamo alcune foto. Un’occhiata al panorama mentre la digitale dispettosa non fa il suo dovere e fatica ad obbedirci, il tempo a disposizione non è molto ma è difficile togliersi dalla visione di quel blu totale con un mare di nuvole inquiete che lasciano scorgere a perdita d’occhio solo le cime più alte e soprattutto l’immagine di quel incredibile dito di roccia che si erge un poco sotto noi, solitario ed enorme pare indicare il cielo ed insinuare in me quesiti sepolti nel cuore da tempo. Mi chiedo fuggevolmente se tutto al mondo è visibile come queste cime o se c’è veramente qualcos’altro che non si mostra ma riempie la nostra vita. Con un brivido archivio quella domanda che scuote alle fondamenta molte delle mie certezze e quasi mi spaventata, la sella ci aspetta. Si torna sui propri passi, facile percorso che Giovanni mi fa compiere in avanscoperta ed io sono eccitata da questo ruolo nuovo che non mi è mai stato concesso di sperimentare. Alle sette siamo agli zaini, un breve attimo di riposo poi Giovanni attacca la paretina di fronte mentre io lo assicuro; dopo pochi metri grida che è arrivato e mi permette di raggiungerlo. Ora si deve scendere, Giovanni attento controlla poco più avanti e localizza il canale roccioso che ci permetterà il rientro; come al solito dobbiamo fare i conti con una grande quantità di sfasciumi che rendono tutto molto più complicato. Dopo avermi assicurato vado in esplorazione, scendo cautamente fin quasi alla fine della corda, i passaggi non sono difficili, atterro su di un terrazzino e trovo una sosta costituita da un chiodo vecchio ma abbastanza solido. Parte anche il mio compagno in doppia e deve aiutarsi con un cordino che poi abbandona poiché il tratto si rivela più lungo dei trenta metri di cavo a disposizione. Dopo aver allestito la sosta sul chiodo riparto alla ricerca della via di discesa con un altro tratto in arrampicata certamente più difficoltoso di una semplice salita, ma tenendomi sulla sinistra riesco ad arrivare ad un terrazzo più ampio dove però non trovo nessun tipo di sosta. Avverto Giovanni che mi raggiunge con un’altra doppia e, controllando meglio, trova un paio di chiodi molto malmessi ma utilizzabili dopo alcune robuste martellate; vediamo la base della parete con il suo pendio innevato, è molto vicina e non vediamo l’ora di raggiungerla. Io riparto determinata, quella paretina ci fa perdere un sacco di tempo ed ora la nebbia comincia ad alzarsi a banchi e coprire tutto attorno a noi quindi bisogna fare presto; cerco l’uscita di quel canale, mi volto e vedo in basso un salto che termina con un grosso buco nella neve, capisco che sto sbagliando e cerco ancora, mi sposto e mi arrabbio con me stessa finché trovo l’uscita; eccola, è una bella parete semplice che da sopra non si vedeva proprio. Maledicendo la mia inesperienza vedo scendere Giovanni utilizzando perfino gli ultimi centimetri della corda a disposizione. Ancora pochi gradini semplici e siamo sulla neve, tiriamo un sospiro di sollievo; non è ancora finita ma il più è fatto. Dopo un breve tratto nella nebbia fitta ecco la ferrata, il tempo sta visibilmente cambiando e grossi banchi di nebbia ci circondano improvvisi, ora la nostra meta è la Bocca di Tukett a 2650 metri, afferro il primo cavo mentre Giovanni mi dice che è una ferrata semplice, breve e molto panoramica; ha ragione, tra lunghe scale, cavi e pioli in un’oretta circa terminiamo il percorso senza fatica ma ormai di panorama non se ne parla proprio più. Ecco il passo poi giù per il pendio innevato che porta alla base della valle, incontriamo le prime persone da otto ore a quella parte e scambiamo alcune parole con loro; a breve saremo in vista del rifugio e ci rilassiamo. Ed è proprio verso mezzogiorno che la pioggia fa la sua comparsa, fuori gli ombrellini e allungando il passo, dopo una piccola sosta al rifugio, verso l’una del pomeriggio siamo alla macchina. La pioggia fine e leggera non ci ha più abbandonato e si tramuterà in energici acquazzoni solo durante il viaggio in auto che ci riporta a casa. Grazie alle stelle, ed a Giovanni naturalmente, per questa eccezionale salita. Marina Livella
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