MONTE FUMO 19 ottobre 2008 Si va per una “due giorni”, la nostra meta è il monte Fumo salendo dalla temibile Val Salarno. La vetta è un vago ricordo risalente all’Adamello e la mia unica preoccupazione è sapere che mi toccherà ripetere l’esperienza della lunghissima Val di Salarno! Partenza alle due e mezza di sabato, tra battute e chiacchiere alle cinque siamo alla Fabrezza in Val Saviore a circa 1400 metri di altitudine e poco dopo ecco Davide, Giovanni ed io, carichi degli zaini, imboccare il sentiero per il rifugio Prudenzini. Davide, come sempre di buona gamba, scompare veloce all’orizzonte mentre Giovanni mi tiene compagnia lungo il sentiero molto ripido che invita al silenzio; la fatica mi opprime durante il trascorrere della prima ora di salita mentre anche il panorama ci abbandona e scompare dietro la nebbia. La vista del lago di Salarno con la sua diga mi strappa un sospiro di sollievo, notiamo come il lago sia mezzo nascosto dalla nebbia e stenti a riflettere i monti circostanti nelle sue acque limpide, una piccola sosta poi ripartiamo e dopo poco superiamo anche il lago di Dossaccio ugualmente nascosto alla vista. E’ solo proseguendo che a tratti riusciamo a scorgere in alto brandelli di cielo e vette innevate, anteprima della giornata successiva prevista di bel tempo. La via è interminabile ma meno pesante del previsto poiché priva di neve, traversiamo tutta la vallata in piano ed arriviamo al rifugio quando è già crepuscolo avanzato; sono passate due ore e mezza, siamo a 2230 metri di altitudine, l’edificio è immerso nel buio e nella nebbia tanto che fatico a scorgere la figura di Davide, sorridente, in attesa sulla porta. Il bivacco è vuoto, minuscolo ed abbastanza comodo; mangiamo illuminati dalle frontali poi, subito dopo, ci infiliamo nelle brande, abbiamo intenzione di dormire la bellezza di otto ore filate e, nonostante le proteste di Giovanni che asserisce di non aver sonno, si spengono le luci. Sveglia alle quattro e partenza mezzora dopo, il cielo pare un poco coperto, dieci minuti ed oltrepassiamo il vecchio rifugio poi imbocchiamo la morena molto ripida che porta all’imbocco del vallone tra il Cornetto di Salarno ed il Corno Zuccone. Ricordavo bene la fatica provata precedentemente in quel tratto ed ora la risento identica ma nuovamente resisto, poche parole, a testa bassa cammino ed attendo fiduciosa l’arrivo delle prime luci dell’alba. Intorno alle sei cominciamo a pestare neve tra i massi mentre il crepuscolo schiarisce il cielo e i contorni dei monti si fanno visibili, poi imbocchiamo il vallone di neve dura e facile e terminato quello saliamo direttamente l’ultimo tratto molto scosceso che porta al passo di Salarno. Sono veramente stanca quando prendiamo l’ultima salita ma le parole di Giovanni che dichiara imminente l’arrivo al passo mi fa quasi volare lungo il percorso duro e scomodo tra i massi enormi e mezzo sepolti nella neve. Come sempre le situazioni più difficili offrono i premi migliori e, quando arriviamo in cima, lo spettacolo offerto agli occhi è unico; sono le sette da poco passate, siamo a 3170 metri di altitudine, vediamo il bivacco Giannatoni calato nell’azzurro totale del crepuscolo, appollaiato sulla cresta est del cornetto di Salarno, e poi giù il ghiacciaio candido con la splendida corona di monti che lo circonda. Ancora uno sforzo e raggiungiamo Davide, ci aspetta seduto nel bivacco ed insieme facciamo una breve sosta. L’alba intanto ha lasciato posto al primo raggio di sole che fa capolino come un faro tra le cime alla nostra destra ed illumina per primo l’Adamello che pare la prua di una nave; ne arrossa le rocce della cresta rendendo onore alla sua bellezza, mentre noi ci apprestiamo a scendere sul ghiacciaio. Davide trova un passaggio diretto scendendo una paretina; è lunga circa tre metri, misto abbastanza facile e divertente, veloci lo seguiamo sul ghiacciaio e subito formiamo la cordata. Ora, distanti l’uno dall’altro, ci godiamo ammutoliti la visione della distesa di neve candida ed intonsa che ci stiamo apprestando ad attraversare. Immersi in quel mondo azzurrato ci sentiamo dei privilegiati, stiamo assistendo, quali unici spettatori, alla nascita di un nuovo giorno in cima al mondo. . Davide, primo di cordata si incammina verso nord-est mentre le lunghe ombre dei monti progressivamente si ritirano lasciando il ghiacciaio illuminato dal sole ed a tratti sottolineato da lunghe spaccature di crepacci che ricordano le branchie dorsali degli squali. Noi camminiamo mentre il sole comincia a riscaldare il pianoro rendendo il panorama nitido e brillante; il ghiacciaio è in buone condizioni e nel giro di un’ora, dribblando le lunghe tracce di alcuni crepacci che non fanno paura, ci portiamo sotto le pendici settentrionali del monte Fumo che mostra un versante tanto ripido da inquietarmi un poco. Invece di salire direttamente alla bocchetta, Davide devia leggermente e punta un grosso crestone roccioso che si presenta a sinistra. E’ il lato ovest della prima vetta della Tripla; non avendolo mai scalato Giovanni ed io lo seguiamo entusiasti. Una breve sosta per slegarci e su per quel dorso, dapprima solo nevoso poi sempre più segnato da rocce che creano una cresta sottile ed affilata. Ancora Davide avanti che saggia le rocce con cautela; io lo seguo mentre Giovanni mi tallona da vicino e gli chiede come è la roccia; sentendo le sue assicurazioni mi lascia partire, la roccia è una placca a lastroni lisci con lunghe e sottili spaccature che facilitano l’attraversamento. Da lontano mi pareva difficile ma con calma, nonostante il respiro un poco veloce giungo troppo presto alla fine della cresta, peccato era veramente divertente; ora non resta altro che risalire verso la vetta della Tripla. Raggiungiamo Davide sulla cima, sono le nove e mezza e siamo a 3400 metri di altitudine, ci complimentiamo veramente soddisfatti di quella deviazione da dove possiamo ammirare, dritta davanti a noi, la nostra vera meta, la nord del monte Fumo. Salendo di frequente la osservavo, pareva un mucchio di lastre metalliche accatastate a caso attorno ad un rilievo ed a seconda della prospettiva era vetta acuminata o cresta sottile. Dentro di me l’ho definito un monte bizzarro, non grosso ma con punti inquietanti dove la neve, scarsamente depositata, lasciava vedere la superficie rocciosa grigia, lucida e liscia. Dalla vetta scendiamo alla bocchetta di monte Fumo e giungiamo alle pendici del versante nord mentre i miei compagni si consultano poiché, anche da vicino, lo giudicano troppo pericoloso. Che la gita sia finita qui, dentro di me non ci credo, Giovanni infatti prende per la parete ovest adocchiata salendo dal ghiacciaio; noi lo seguiamo dubbiosi anche quando ci guida per un lungo traverso che consente di arrivare sotto a delle rocce strapiombanti presumibilmente a poca distanza dalla cresta. Ecco, forse ha trovato un punto di passaggio, Davide ed io siamo fermi sotto di lui, con il naso per aria osservo quella salita su misto sicuramente non facile e sento la paura dentro di me. Si muove, lo percepisco teso, pochi movimenti cauti su quelle grandi rocce di granito solide e mezzo innevate, lo vediamo superare quel ostacolo, sparire alla vista e dopo poco gridare sollevato che si appresta ad attrezzare una sosta. Butta la corda, viene subito seguito da Davide e poi da me, saldamente assicurata; ho così modo di divertirmi a superare quelle rocce constatandone la reale difficoltà. Al di là scopriamo che i massi si diradano mentre la neve diventa abbondante ed un ripido porta a superare una parete nevosa e poi, dopo breve salita, giungiamo ai ruderi di una casa ed alla vetta. Vetta da ridere ci diciamo, tutta quella fatica per arrivare ad una baracca diroccata e Giovanni racconta che sono ruderi della Prima Guerra mondiale e sicuramente quella non è la via normale per cima Fumo, difficile da riconoscere sepolta com’è dalla neve. Sono le dieci e mezza da poco passate, riposiamo accanto alla croce di guerra costituita da due bastoni di legno mezzo sbilenchi che Giovanni tenta di aggiustare armato di picca mentre ci complimentiamo e fotografiamo il panorama che a quella altezza è ancora più spettacolare di prima. Non ci possiamo fermare, ora che l’adrenalina si è calmata non resta che scendere presto poiché la strada del ritorno è lunghissima; ripercorro di malavoglia la china, non mi rassegno ad abbandonare quella cima molto desiderata e conquistata con altrettanta fatica. Mi diverto, sempre assicurata, a rifare il tratto di misto senza aiuto, poi slegata mi porto al traverso ed attendendo i miei compagni scattando fotografie ai loro visi soddisfatti anche se un poco stanchi mentre, mai paga, ancora ammiro la piana del ghiacciaio segnata dalle mille branchie scure e dentro di me penso che la terra forse respira attraverso quelle aperture. Dopo avermi raggiunta, ripercorriamo il traverso a picco sul ghiacciaio ed in un baleno ecco la sella; è mezzogiorno, il sole è bollente ed il cielo blu, breve sosta per legarci ed ancora preceduti da Davide, via verso la grande distesa ritrovando le nostre solitarie tracce dell’andata. Riattraversare non da problemi e nonostante qualche sosta in più all’una siamo in vista del bivacco Giannantoni visibile da lontano per il suo bel giallo e vivace. Giovanni che ora è davanti avvista sulla sinistra un punto di salita che pare semplice, con un colpo di fortuna trova il vero passaggio per giungere al passo, dopo una breve salita infatti troviamo una passerella costituita da alcune vecchie travi di legno dall’apparenza malsicure e subito siamo all’altezza del bivacco. Pensiamo di meritarci una sosta, scendiamo un piccolo tratto e su di una stupenda balconata che si affaccia sulla Val di Salarno consumiamo il nostro cibo, fa caldo, non c’è vento e siamo allegri. Ora che riesco a vedere il percorso non mi pare più così terribile, anche perché la discesa è sempre meno pesante; ripercorriamo quindi il traverso innevato e le grandi rocce che mano a mano si fanno sempre più piccole e prive di neve fino a trovare il sentiero. Dopo un paio di brevi pareti ancora innevate in cui io mi esibisco in una bella scivolata da manuale (!!), arriviamo al fondo della vallata, superiamo il grande monolito su cui fanno bella vista degli spit che indicano vie da Uomo Ragno e siamo in vista del Prudenzini. Sono le tre e mezza, fuori dal bivacco finalmente troviamo gente, scambiamo qualche parola recuperando i nostri sacchi a pelo, poi ripartiamo veloci. Dopo una breve fermata per immortalare il lago di Salarno tanto basso da lasciar affiorare lunghe isole sabbiose che stupiscono, oltrepassiamo la diga e percorriamo la lunga vallata finale. Verso le cinque e mezza, con i piedi doloranti sono in vista dell’auto, è stata una salita dura che ricorderò.
Marina Livella
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