IL CASTELLO DELLE STREGHE

Via est Carè Alto                      12 Agosto 2007

Partenza sabato alle sette di sera, la meta per il giorno successivo è la cresta est del Carè Alto, mi è stato detto che sarà una salita lunga e difficile, ma sapere che è roccia quanto andremo ad affrontare, mi rende molto felice.

Arriviamo alle nove circa in Val Borzago al parcheggio di Pian del la Sega, Davide, Giovanni, Marco ed io; è accordato che la mattina successiva ci si trovi con Stefano e Loredana al rifugio Carè Alto dove proseguiremo insieme la salita.

Velocemente installiamo la tenda dove dormire nei nostri sacchi a pelo e, mentre il crepuscolo ci abbandona e la notte scende, mangiamo qualcosa scherzando.

Attorno a noi abeti silenziosi e, molto in alto, al confine col cielo, la piccola luce solitaria del rifugio Carè Alto; sappiamo che i milleduecento metri che ci toccano per arrivare fin lassù saranno pesanti e la salita vera ci troverà già provati; mi fa timore tutto questo ma le sfide mi piacciono e sono quasi certa di riuscire anche in questa prova.

 Nel buio ci infiliamo nella tenda e ci ingegniamo a dormire, cosa non facile ma che cerchiamo di fare velocemente, la sveglia alle tre meno dieci del mattino dopo chiede di riposare il più possibile; mi addormento con il pensiero della minuscola e lontanissima luce vista in cima al monte dove i ragazzi ci attendono.

Sveglia ore 2 e 50, stranamente mi sento bene, poco assonnata, una frugale colazione e partenza alle 3 e 30 verso il rifugio Carè Alto; contiamo di arrivare dopo tre ore circa ed il passo è svelto ma non troppo, 2100 metri abbondanti di dislivello è quanto dobbiamo affrontare in quella giornata e non è il caso di stancarci molto con il primo tratto.

Bella salita seguendo un sentiero ripido nella notte buia sotto ad un cielo stellato armati delle nostre pile frontali; quattro ombre che silenziosamente camminano per i boschi profumati ed umidi della rugiada notturna attente a non disturbare l’ambiente circostante.

Lentamente il crepuscolo arriva ed in 2 ore e 20 siamo al rifugio, Giovanni è entusiasta dei nostri tempi, ed io, un poco affaticata ora mi sento meglio, dopo il buio più assoluto infatti intravedo il mondo attorno, la grande costruzione in pietra chiara, il panorama di vette e Stefano e Loredana sorridenti che ci stanno aspettando.

Breve sosta di soli 15 minuti circa, non si può sprecare il tempo a disposizione e quindi si riparte subito in compagnia di altri due alpinisti che fanno il nostro stesso percorso; lasciamo indietro il rifugio che si sta svegliando immerso in un mondo blu e cominciamo, dopo un breve sentiero semplice, una lunga serie di rocce ripide che ci fanno alzare velocemente  di quota mentre il cielo si fa più chiaro mostrando lunghe lingue orizzontali rosee tra il grigio perlaceo.

La via ci fa incontrare roccioni sempre più alti e, voltandoci, possiamo assistere al nascere di un’alba luminosa che pian piano si mischia con l’abbagliante sfera del sole; lo vediamo alzarsi tra i monti alle nostre spalle illuminarci come un faro, giocare con i profili rocciosi e divertirsi con le ombre che presto si dissolvono attorno a noi.

    Il percorso è piacevole salendo di fianco a lastre enormi di granito che pare levigato ed accatastato ad arte per l’allestimento di uno scenario da film d’avventura; siamo proprio appena sotto l’inizio della spettacolare cresta che attaccheremo.

Si comincia finalmente a vedere la neve e, prima di traversare il piccolo ghiacciaio Conca facciamo una pausa al Cannone, un famoso appostamento dove un grosso cannone austriaco della 1° guerra, arrugginito ma ancora molto minaccioso, pare “tenere d’occhio” la valle sottostante. Tante le fotografie a quel triste simbolo e, quasi intimoriti, riprendiamo la nostra via lasciando sola quella metallica icona della stupidità umana.  

Attorno il panorama pare un quadro giapponese con nebbia lattiginosa che vela i monti lontani e li colora di tutte le possibili sfumature di grigi e azzurri; ora, dopo l’ultimo dosso roccioso poco spruzzato di neve, siamo davanti al piccolo ghiacciaio Conca sporcato da un grosso crepaccio circolare, da lunghe fiamme scure di roccia sbriciolata, da rocce solitarie, e sovrastato dalla “nostra” cresta.

Lo percorriamo lungo il bordo destro dopo esserci attrezzati con i ramponi ed in 20 minuti circa siamo sotto a quella alta costruzione di lance aguzze e disordinate che forma la nostra vera meta. Il mio stupore è grande ed avanzo senza stancarmi di osservare quella cresta incollata al cielo blu intenso non interrotto né da nuvole né da altre imperfezioni che ne rovinino la grande uniformità quasi irreale.   

Ancora qualche roccia facile e poi l’arrivo sotto alla parete che costituisce il nostro passaggio per arrivare in alto; è formata da un placca di lastroni lisci spaccati da lunghe fessure oblique e mi spaventa un poco, pare una salita molto difficile ma Davide, dopo essersi assicurato, comincia la scalata sicuro come sempre. In breve tempo è sopra, attrezza una sosta ed allegro ci incita a raggiungerlo. Uno dopo l’altro ci cimentiamo, che eccitazione e felicità è afferrare saldamente quella roccia ruvida quasi candida e sentire le gambe che rispondo pronte alle sollecitazioni; ora la stanchezza ed il fiatone sono scordati, alle spalle un mare di nuvole candide che nascondono solo parzialmente i monti scuri e davanti la libertà.

Ci ritroviamo tutti sulla cresta sottile a tratti strapiombante verso le valli sottostanti ed a tratti allargata da grandi massi che ci costringono ad una gimcana appassionante. Il primo stralcio di salita è facile con piccole difficoltà che la rendono ancor più divertente e non sentiamo nemmeno la necessità di legarci in cordata tanto la roccia è sicura e gli appigli ovunque.

Tra una risata e l’altra e sotto ad un sole cocente percorriamo rapidi un lungo tratto; bella la parete molto liscia con una lunga fessura che la percorre orizzontalmente, e che affrontiamo legati quasi a cavallo dello spigolo. Tutto è fonte di battute e di storielle e sembriamo gitanti ad un pic-nic anche se l’attenzione che mettiamo nella salita è sempre molto grande.

Ci ferma una parete in ombra, liscia ed un poco ghiacciata, i ragazzi sono indecisi, Davide si assicura e la tenta, è difficile ma come sempre né ha ragione ed arrivato più sopra organizza una sosta e ci invita a salire; con molta cautela Stefano, Marco, io, ed infine Giovanni, lo raggiungiamo. E’ stato il punto più ostico ma, come sempre, ho scoperto che con i miei angeli nulla è impossibile.

Troppo presto Giovanni, che mi segue da vicino, mi indica l’avvicinarsi della vetta ed io mi sorprendo a rallentare per gustare quanto rimane della via e cercare di imprimere nella memoria le sensazioni forti ed il buon sapore dell’adrenalina che sento dentro. Lungo la cresta troviamo altri reperti di guerra e, che sorpresa l’enorme argano poco sotto la cima; ci fermiamo a guardare le costruzioni di legno rovinato dal tempo e dal gelo, è impressionante il meccanismo di ferro arrugginito che pare impossibile sia stato installato a quella altezza dalla sola forza di esseri umani.

Ancora belle placche lisce e strapiombanti dove il colpo d’occhio al panorama regala il proseguimento della cresta assalito da nubi tumultuose che, riflettendosi scure sulla neve candida delle pendici, creano incredibili giochi ottici.

L’entusiasmo è alle stelle, la bella croce metallica ed asimmetrica è sempre più vicina, passiamo un tratto di cresta ben innevata, ancora un picco che aggiriamo, poi una sella e una ultima salita ripida ed alle 10 e 45 siamo in vetta. La scalata è stata compiuta esattamente in 7 ore e 15 minuti e ci complimentiamo a vicenda per la bella impresa. Molte le fotografie a noi stessi ed allo stupendo panorama che dai 3460 metri di quota vediamo; a far da sponda la ghiacciaio di Lares, il Cavento ed il Crozzon di Lares, molto più in là la Presanella e molto più in basso a ovest la Val di Fumo con il lago di Malga Bissina.

Non è possibile attardarci, sia per il tempo che passa troppo rapido che per il freddo intenso, attrezziamo una sosta alla croce di vetta, quindi, prima Davide e poi tutti noi, scendiamo per una ventina di metri quelle placche lisce e poco innevate fino ad un pianettino.

Il ritorno sarà compiuto per la via normale, quindi si deve arrivare ad un canale che ci condurrà diretti al ghiacciaio di Lares. Dal piccolo ripiano Stefano e Giovanni mi caricano di una delle corde e mi spediscono fin dove Davide e gli altri sono già in attesa per organizzare la doppia di discesa al ghiacciaio; io svelta percorro delle facili rocce ed arrivo dai miei compagni.

Il canale appare semplice, Davide decide di scendere senza corda ed armato di picca parte; noi attendiamo Giovanni e Stefano poi lo raggiungiamo divertiti da quella doppia inaspettata sotto ad un cielo blu adornato da grandi nuvole candide.

Ci attende una spianata innevata, formiamo due cordate e partiamo; tutto il ghiacciaio di Lares è da attraversare, affare abbastanza noioso e stancante per le nostre gambe già provate da innumerevoli ore di cammino.

La prima cordata parte veloce, Giovanni, Stefano ed io ci attardiamo un poco poi ci avviamo, i nostri compagni sono già lontani, puntini scuri nel bianco abbagliante della neve e la minuscola dimensione di noi esseri umani di fronte alla potenza della natura è resa con grande efficacia.

Radi e non difficili i crepacci in cui incappiamo, chiacchierando rilassati arriviamo a rocce che danno sicurezza al cammino, ora la prossima tappa è il rifugio, il tempo è ancora favorevole e ci regala la certezza che per ora non peggiorerà anche se grosse nubi riempiono il cielo.

La nostra cresta si fa sempre più distante e vediamo solo le nitide tracce del rientro sul canale e lungo la distesa candida, è come sempre un grande strappo allontanarmi da quanto ho appena vissuto e sento dentro di me l’amore per quanto mi circonda scaldarmi ed aiutarmi ad abbandonare i monti che ho attorno.

Oltrepassiamo un laghetto parzialmente gelato ed attorniato da strati e strati di vecchio ghiaccio grigiastro, è la coda del Lares appena lasciato, stupenda immagine velata dalla nebbia; raggiungiamo Davide che, sconsolato, ci racconta di quando il ghiacciaio era immenso e che purtoppo non passerà molto tempo ed anche ciò che vediamo scomparirà; sembra il saggio dei monti e un poco immalinconiti ripartiamo dopo aver immortalato quella meraviglia della natura.

Ancora rocce sul nostro percorso; improvvisamente Giovanni ci indica una grande punta rocciosa e dice “guardate la stria”, ci voltiamo, in alto, un poco nascosta dalla nebbia c’è una roccia che somiglia ad una figura incappucciata con un grande naso a becco, un enorme essere umano avvolto in un grande mantello scuro; è il famoso Sass de la Stria che pare messo lì a guardia dei monti.

Affrettiamo il passo tenuti a bada da quella misteriosa apparizione che ci accompagnerà per lungo tempo, fino al divertente passaggio su due funi che servono da guado sopra allo scorrere di un torrente argentino e tumultuoso.

Ora compaiono veri sentieri, dopo poco arriviamo al passaggio del Bus del Gat ed alle sue scale ripide che portano al rifugio Carè Alto; sono solo una manciata di scalini di pietra grigia ma i nostri muscoli gridano di stanchezza ed essi  paiono non finire più.

Una piccola sosta al bel rifugio, dedicato a Dante Ongari, dove riposiamo un attimo e scambiamo alcune parole con i gestori gentili e sorridenti; ci attendono ancora poche ore di fatica da lì alle auto ma la discesa risulta infinita; il sentiero è interminabile e quando, verso le cinque del pomeriggio siamo alle auto e ci togliamo finalmente gli scarponi i nostri visi sono stanchissimi. In cambio però i nostri occhi sono ridenti ed ancora eccitati dalla stupenda avventura.

Per Davide, Giovanni, Marco e me la salita è durata 13 ore e mezza circa, per Stefano e Loredana un poco di meno favoriti dalla notte trascorsa al rifugio; siamo quasi stupiti dalla lunga salita compiuta, la “Stria” probabilmente ci ha protetto e guidato su per quelle rocce e, dentro di me, ringrazio lei ed i miei inseparabili compagni per tutto questo.

  

                                           Marina Livella