Cima di Dois 2 Settembre 2007 Belle come sempre le gite di esplorazione, anche con nebbia fitta ed in luoghi non conosciuti, già è proprio in quei momenti che, chi conduce la compagnia, deve acuire le sue capacità trovando una via d’uscita. Certo, tornando verso il basso nel tardo pomeriggio Giovanni brontolava dicendo che la meta prefissata non era stata raggiunta, ma il resto del gruppo era felice della salita, quindi la giornata non era andata sprecata e questo era ciò che contava veramente. Tutto era cominciato alle sei di mattina con un nome, Frisozzo, sopra la Val Paghera che inizia dopo Ceto, quel bel paese abbarbicato ai monti che si nota passando per l’alta Val Camonica. Dopo aver percorso la lunga e stretta vallata ci troviamo, verso le sette e mezza, a 1200 metri di altitudine tra le caratteristiche case sparse della Val Paghera, prendiamo il sentiero che nel mio ricordo porta a Cima Monoccola, già percorsa tempo fa, ma poi deviamo a sinistra verso la Val di Dois. Il tempo è incerto, la vallata nebbiosa interrotta da bei casali di pietra chiara e da grandi macchie di abeti che si contendono lo spazio con i pendii di sfasciumi; dopo aver lasciato anche gli ultimi radi edifici la valle si stringe e passando vediamo solo la spettacolare parete sulla destra che si erge verticale e liscia di lastroni grigi. Proseguiamo allegri ma incerti sul percorso, la vegetazione ora è costituita solo da bassi e sporadici cespugli, andiamo verso nord-est sui grossi massi un poco difficili che ci si presentano mentre a tratti il cielo mostra aperture di azzurro chiaro. Solo per poco, nubi turbolente si impossessano nuovamente del cielo e non ci lasceranno più; il sentiero è ripido, camminando sui prati stopposi e stenti di erba cresciuta alta faticosamente percepisco il mio fiato corto ed i pesanti pensieri di prima mattina che mi accompagnano; attendo che la montagna “faccia effetto” e mi regali la felicità che ritrovo sempre dopo una bella dose di fatica. Alzando lo sguardo più sopra vedo la strettoia della valle formata da grossi roccioni e mi fisso la tappa, già, è molto meno pesante camminare se mentalmente ci si impongono brevi mete che si è certi di raggiungere; tratto dopo tratto è sicuro che si arriverà alla cima. Siamo alla strettoia che ci mostra il proseguimento della valle chiuso dai monti, troviamo due piccoli laghetti dove ci tratteniamo un poco per una sosta, si sgranocchia qualche cosa e si fanno due chiacchiere, siamo rilassati e curiosi di esplorare la zona. Si riparte, dopo poco arriviamo al lago delle Pile, una uniformità di grigio plumbeo che si associa ad un cielo dell’identico colore, non fa freddo ma l’umidità ci trapassa le ossa, siamo a 2160 metri di altitudine, si sfoderano cartine per capire come andrà il percorso. In alto si intravede il Passo Dernal ad un ora scarsa di cammino con la macchia scura del rifugio Maria e Franco appollaiato sulla sella; Giovanni mi dice che non arriveremo fin la, si decide infatti una deviazione repentina a sinistra; e dopo aver salito un ripido pendio erboso con qualche roccia sparsa ci troviamo sul versante a sud del monte Frisozzo, siamo accecati dalla nebbia e scopriremo poi che stiamo sbagliando via. I nostri ottimi ragazzi cercano di trovare un segno, saliamo verso una cresta alla ricerca di punti di riferimento, i monti paiono fantasmi e talvolta si mostrano ma molto offuscati; vediamo nella nebbia una cresta aguzza formata da lastre che puntano verso l’alto, ci alletta ma non si trova modo di raggiungerla. Talvolta le nubi si diradano e qualche cosa si scorge, troppo poco per orizzontarci, si scavalca la cresta probabilmente sulle cime di Dois, e la seguiamo per un bel tratto un poco sotto traversando su rocce e pendii di erba dura; oltrepassiamo due grossi spuntoni di roccia che dovrebbero regalare un punto fermo di riferimento. Mezzogiorno è passato da tempo, l’appetito è grande, Carlo, Giovanni, Stefano, Loredana ed io ci fermiamo per una sosta. Osserviamo Sergio e Davide che proseguono, sempre ansiosi di vedere “cosa c’è al di là”; scompaiono come ombre lungo un pendio che sale verso l’alto, guardo con apprensione i miei compagni sfidare la nebbia e sparire; sapere che non sono certi del divenire della via mi da sempre ansia ed inquietudine. Si mangia qualcosa velocemente, Carlo non attende molto, poi si prepara e riparte, pure noi lo seguiamo subito percorrendo per un poco il declivio, uno scambio di pareri a voce alta tra noi sotto e le nostre avanguardie sopra ci convince a proseguire il cammino, forse hanno trovato il modo di raggiungere la cresta. Lungo un tragitto facile proseguiamo e ci rendiamo conto di dover scendere sul versante nord; ci troviamo ad affrontare un canalino erboso delicato ed infido; nel silenzio più totale affrontiamo quel breve passaggio difficile. Un passo dopo l’altro, sentivo solo il mio respiro nella nebbia umida mentre cercavo di valutare con attenzione ogni movimento compiuto a ritroso ed alle mie spalle, bizzarramente capovolto tra le mie gambe, il resto della compagnia concentrato nella discesa la cui vista per me era, come sempre, fonte di grande conforto. Arriviamo alla fine del canale d’erba e piccoli massi, costeggiamo il piede della cresta verso est con qualche saliscendi su grossi massi e cerchiamo il passaggio che ci riporti in cresta. Troviamo un altro canalino, sottile, erboso e ripido, fiancheggiato da una parete scoscesa di roccia liscia; in alto ancora rocce, grosse e spigolose da raggiungere ed in cima una specie di terrazzino dove già alcuni dei nostri sono giunti. Rapidamente lo risaliamo, notiamo sulla parete a destra, un poco in alto, un cordino; questo significa che certamente è possibile scalarlo, peccato sia umida e non sicura l’uscita che altrimenti i nostri l’avrebbero tentata. Si volta a sinistra, sento in alto la voce di Davide, vedo Sergio che ci aspetta, ha già fatto passare gli altri, manchiamo Giovanni ed io, il passaggio è difficile, con un largo sorriso tranquillo mi da una mano e mi ritrovo in cima ad abbracciare lui e Davide che mi accolgono ridenti. Ci raggiunge anche Giovanni e cerchiamo di capire dove siamo, poche le cime che si mostrano, sicuramente cima Frisozzo è lontanissima, in basso c’è il lago d’Arno, triangolo azzurro tra il grigio delle rocce ed il bianco delle nuvole basse; finalmente la geografia del posto si fa più chiara, purtroppo ci da pure c’è la sicurezza che la cima fissata non sia più raggiungibile. Che si fa, manca la vetta ma vediamo quello che c’è, sopra noi la cresta si impenna e sale improvvisa con blocchi e lastre di roccia accatastati quasi ad arte; Davide è perentorio, quella è la nostra cima, lassù si deve andare; approviamo, l’importante è andare su. Bello vedere quanto lo spirito che governa il nostro gruppo sia il motore che ci fa sempre tentare e ricercare cime; già, se c’è una vetta si può poi andare tranquilli a casa, non serve sia nulla di famoso, basta che i nostri scarponi raggiungano il punto più alto possibile. Lasciamo gli zaini sul piccolo ripiano ed iniziamo una breve ma, per me, veramente complicata salita. Fa freddo e tira un bel vento; i lastroni di roccia liscia messi a casaccio sbarrano la via e mi è faticoso guadagnare quello che per noi è l’arrivo, ma con alcuni suggerimenti, arrivo su con gli altri. Molte foto e sorrisi e complimenti circondati dalla nebbia più fitta e grigia che possa esistere ma che non ha il potere di interrompere la nostra corrente di condivisione. Fa freddo ed il rientro è una incognita, ci apprestiamo a tornare sui nostri passi, usiamo altre rocce scendendo che mi paiono più facili, ma forse è solo la vicinanza di Davide e Giovanni che mi danno sicurezza; siamo al delicato passaggio in basso, lo superiamo velocemente e scopriamo che non necessita di alcuna assicurazione. Ecco la base della cresta, la pancia mi duole poiché me ne sono stoltamente servita per la discesa durante l’ultimo passaggio ma sono intera e molto eccitata per questa ennesima avventura; ora non resta che tornare al fondo valle, un tratto di canale ripido su cui non è consigliabile scivolare e poi giù per prati giallastri chiacchierando rilassati. Ci ritroviamo in fondo, talvolta il cielo si apre, scopriamo di essere andati veramente troppo ad ovest rispetto alla cima che volevamo raggiungere, la vediamo a tratti ed il percorso finalmente è visibile anche se in ritardo; non ce ne importa, una bella salita è stata compiuta, ora dobbiamo solamente trovare il modo per arrivare velocemente in fondo. Proseguiamo accostati a grossi massi di roccia grigia, che ci fanno apparire piccoli come moscerini, cercando di non dare credito ai mugugni di Giovanni deluso per non aver saputo trovare la vetta prefissata. Scendiamo diretti non usando il percorso dell’andata più dispersivo e complicato; troppo presto siamo al laghetto incrociato alla mattina, fangoso e fitto di rocce nere che affiorano dal pelo dell’acqua, dove ci fermiamo a commentare la salita che sta terminando rilassandoci e ridendo di mille battute. Si riparte, troviamo il sentiero agevole della mattina che ci consente di rivedere i boschi profumati di muschio e di funghi, soprattutto vistosissime ed allegre mazze di tamburo, che ci hanno accompagnato lungo il percorso poche ore prima. Speranzosi di coglierne almeno uno Carlo e Davide si lanciano alla ricerca, mentre noi ci ritroviamo a osservare il sottobosco con molta attenzione passando; peccato che tutta la zona fosse già stata sicuramente setacciata e ripulita da una moltitudine di gitanti e che non ci fosse ombra alcuna di funghi mangerecci. Un poco dispiaciuti arriviamo alle auto, ci ripuliamo e rimessi a nuovo risaliamo la strada per un tratto fino ad un bar aperto che abbiamo notato scendendo; dei panini e qualche cosa da bere ci rinfrancano mentre chiacchierando di tutto un po’ scopriamo che, inevitabilmente, ad ogni salita ci ritroviamo sempre più uniti e fratelli. Il crepuscolo è alle porte quando ci decidiamo a ripartire, Carlo, Davide, Giovanni, Sergio, Stefano, Loredana ed io torniamo a casa soddisfatti e paghi della bella giornata appena conclusa. Alla prossima, magari senza nebbia!
Marina Livella
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