IL CASTELLO DELLE STREGHE

Biancograt  Bernina         17 settembre 2007

E’ passato tempo da quando siamo tornati a casa dopo questa ennesima esperienza, ne ho guardato le immagini molte volte e ci ho ripensato ancora di più ma mancava la forza di scrivere. Io che la Biancograt l’avevo scalata solo perché sono testarda e scontrandomi con il diverso parere dei miei compagni, mi sentivo vuota e non trovavo le parole.

Ci provo ora, a stenti, cominciando dal principio e con parecchia ansia addosso; certo è che non posso lasciar passare questa avventura senza provarmi a raccontarla!

            Ci ritroviamo all’una del sabato pomeriggio per la partenza, mi tremano le mani, fa caldo e come sempre cerco di dormire per tutto il viaggio ma non è facile, ho pensieri pesanti.

            Arriviamo in Svizzera, a Pontresina, alle 4,30, Davide, Davide Jr., Giovanni, Marco e Stefano sono visibilmente allegri e psicologicamente carichi.

            Mentre noi ci prepariamo Davide e Giovanni portano una delle due auto al Morteratsch dove la ritroveremo al rientro. Sono le 5 quando ci addentriamo lungo la Val Roseg; percorso monotono ma addolcito dal panorama tranquillo di boschi tanto curati nei minimi particolari da parere finti.

Chiacchierando seguiamo il sentiero che costeggia un torrente argentino tra due ali di vegetazione, vediamo le prime foglie colorate di gialli e rossi che preannunciano l’arrivo dell’autunno, cuscini di muschio verde sembrano messi lì ad arte e poi cavalli e mucche che pascolano, tutto perfetto, fino ad un ristorante che promette gite in carrozza, cibo e relax al delimitare del mondo abitato; è il contrassegno per l’inizio delle difficoltà vere, davanti a noi ora cime alte e maestosamente innevate che non sono però la nostra meta, i miei compagni dicono che devo avere ancora pazienza.

            Il sentiero sale e si fa ripido ma è facile e ben segnato, la meta è il rifugio Tschierva a 2540 metri di altitudine; lungo la via vediamo il pomeriggio trasformarsi in crepuscolo e fotografiamo un tramonto rosso che infuoca vette candide. Una svolta verso sinistra, poi ancora su finché dopo l’ennesimo tornante abbiamo per la prima volta la vista della cresta nevosa della Biancograt dal versante ovest; è lunghissima e mi confonde.

            Alle otto circa siamo al rifugio; le sue luci avevano occhieggiato fin da molto in basso ed ora ci troviamo davanti a quella grande costruzione in pietra chiara. Scopriamo un locale assolutamente svizzero, pieno di gente e troppo elegante per essere un rifugio, su alla camera per la sistemazione e poi in sala da pranzo per gustare uno strano minestrone verdastro e molto aromatico che si scontra un poco con i nostri gusti. Pazienza, è cibo!

            Ci infiliamo a letto di corsa, la sveglia poco dopo le tre è molto vicina e ridendo cerchiamo di addormentarci nella stanza calda come un forno che ci è stata assegnata.

            Partenza alle 4,00, il sentiero è ripido ma facile ed inizialmente ben segnato da catarifrangenti, come sempre il buio non mi è amico e mi spaventa un poco, partiamo per primi con Marco che guida il gruppo ma non siamo gli unici sulla via, un’altra decina di luci segna la notte nera come la pece. Dopo un poco ci ritroviamo soli, facciamo un traverso, il sentiero sembra perso e dobbiamo compiere una faticosa gimcana su blocchi di roccia che franano sotto agli scarponi.

Come sempre l’inizio della salita è molto pesante per me, ma i miei compagni tengono un passo che mi consente, per ora, di non essere staccata; arriviamo a delle roccette divertenti e poi ad un breve ghiacciaio, aperitivo della bella neve che arriverà più tardi; questo è il passaggio che porta alla piccola ferratina per la Forcola Prievlusa a 3400 mt. Il crepuscolo arriva e poi un’alba dolce e luminosa che suggerisce una giornata di sole caldo e con poco vento; siamo veramente fortunati, ammiriamo l’orizzonte, è un susseguirsi di catene montuose che vanno a perdita d’occhio delineate da un letto di nubi bianche.

            La salita continua, dopo esserci legati superiamo il primo risalto roccioso della cresta attrezzato con chiodi ed anelli molto scarsi, è comunque facile e divertente, io penso che sicuramente la fatica verrà dopo e l’attendo con timore.  Dopo il primo colletto troviamo un tratto di misto con poca neve, anche quello semplice, capisco che d’ora in avanti spesso mi dovrò arrangiare, Giovanni con cui sono legata, è parecchio più avanti ed io me la devo cavare da sola.

Alla sommità del primo tratto ci riuniamo, costeggiamo delle belle rocce in traverso ed alzandoci, troviamo una spianatina dove facciamo una piccola sosta per calzare i ramponi per poi ripartire subito;  poco dopo ecco lassù la Biancograt.

Difficile spiegare quello che si prova davanti alle curve perfette di quella cresta candida e temeraria slanciata verso il cielo, quella geometria incollata al blu cobalto è quanto di più vicino al paradiso abbia mai potuto vedere. Salendo mi ritrovo alcune volte con gli occhi pieni di lacrime, non spaventata, no, è il mio cuore che travolto dallo stupore si esprime emozionandomi e regalandomi le uniche lacrime che accetto come inevitabili e gradite.

Costeggiamo una specie di grande cratere in piano che il vento si è divertito a creare e poi su per la cresta che si impenna improvvisa. E’ una salita ripida e faticosa che richiede parecchie piccole soste; l’altitudine si sente e fa le gambe pesanti, vedo i nostri compagni qualche tratto più avanti e penso che forse, nonostante tutto, ce la posso fare.

Ora mi sento sicura, sono sulla neve, il passo è lento ma continuo, il sole picchia sopra di noi implacabile ed il vento è gelido ma lieve, avanziamo su di un filo, ai nostri lati vediamo i fianchi della montagna rotolare giù bianchi di neve intonsa ed in fondo enormi pendii e distese di seracchi, grigie spaccature che incutono timore; il panorama è immenso, una moltitudine di vette vicine e lontane riempie i nostri occhi meravigliati.

Riprendiamo la salita della cresta, pareva una cosa da niente ed invece non finisce più, sono stanca eppure mi sorprendo a guardare con rincrescimento le rocce che delimitano la fine della linea candida in rapido avvicinamento. Ancora tratti ripidi e grandi strapiombi interrotti da alcune soste che fanno ritrovare il fiato e poi il culmine della cresta, il Pizzo Bianco a 3995 metri di altitudine.

Ennesima breve sosta poi comincia la cresta rocciosa, vediamo il primo torrione solo sporcato di neve davanti a noi, seguiamo gli scarsi segni verso sud sud-est, il primo tratto è semplice e con un paio di corde doppie si scende alla sottostante Breccia del Bernina, è circa mezzogiorno e pare che gli orari siano rispettati.

Ora si va calmi, un altro bel traverso su terreno misto per aggirare la base di un torrione e su di nuovo in cresta per un canalino nevoso. Talvolta mi devo scontrare con la poca dimestichezza con le manovre di cordata ma Giovanni, anche se leggermente teso per la salita, aspetta che io compia tutto quanto devo con attenzione e non mi mette fretta, la bellezza di quanto stiamo compiendo è assolutamente più importante di tutto il resto.

Ancora rocce, i tiri di corda sono abbastanza corti perché io possa sempre vedere il mio compagno, alpinisti che prima erano dietro noi ci superano e questo causa lunghe attese che infreddoliscono non poco. Si percorre un altro lungo tratto, il resto del nostro gruppo è ora parecchio più avanti, dopo una piccola calata ci lasciamo superare da un ragazzone sorridente che va veloce, tanto è lo stupore quando, dopo un attimo, lo vediamo tornare indietro, non è italiano e quindi non ne sappiamo il motivo, ridendo proseguiamo la via.

Capisco bene la tensione di Giovanni, non è certamente semplice una salita con pochi punti per la sicura, l’incognita del divenire del percorso ed un compagno inesperto; ma il tempo splendido, l’abbondanza di appigli semplici e continui, la roccia solida  e l’impegno appassionato della sottoscritta,  hanno fatto in modo che perfino troppo presto fossimo in vista della vetta dove i nostri ci attendono.

Ancora un salto di roccia, una piccola guglia poco faticosa con una striscia di neve che la rende divertente, e siamo sotto all’ultimo torrione; sembra incollato alla vetta scorta poco prima invece si rivela il più bello tra quelli percorsi, pare insormontabile, è l’ennesima prova da superare per avere la cima in premio.

            Percorrendolo vediamo che non è più impegnativo degli altri, dopo un primo tratto di  sola roccia si sfodera la picca per scalare una china ripida nella neve solida scaldati da un bel sole che, dopo essere stati in ombra ci era necessario; seguiamo la traccia di altri alpinisti che segna la via fin sopra ed  in poco tempo siamo in cima, è molto alta e si ha la stupenda visione delle creste innevate attorno e della vetta.

La fatica è premiata, una piccola discesa, un semplice traverso a strapiombo ed ecco le ultime rocce che portano in alto verso la vetta, devo sottostare ad alcune piccole difficoltà, poi finalmente posso vedere i sorrisi soddisfatti dei miei compagni che ci attendono.

            Sono le due circa, da quasi un’ora ci aspettano, sono dispiaciuta ma il ritardo è subito perdonato, ci troviamo in cima al mondo a 4050 metri di altitudine; per la terza volta in una estate il Bernina ha concesso al GAL di giungere al di sopra delle nuvole.

Molte foto e risate ma poche parole, io mi sento vuota ed ho il cuore in subbuglio, guardo il percorso compiuto ma dentro di me non ci credo, sono confusa.

Non ci si attarda molto, si riparte, la meta è il rifugio Marco e Rosa, non è possibile il rientro in giornata, quindi abbiamo tutto il tempo per arrivarci; rivedo quindi le belle roccette semplici che ricordavo e la cresta della via normale già segnata da tracce di alpinisti. Si arriva al ghiacciaio che dobbiamo discendere, c’è un problema, si è formata una profonda crepaccia terminale che lo segna orizzontalmente. Con una breve calata Davide, sempre in avanscoperta, attrezza il salto con la sua picca ficcata nel ghiaccio della parete, quindi uno alla volta lo seguiamo sotto ai suoi occhi attenti.

Ci raggiunge il ragazzone bizzarro della mattina con due amici, non hanno una corda sufficientemente lunga, offriamo loro la nostra per oltrepassare il crepaccio e loro accettano con gratitudine.

            Dopo un altro passaggio sul finale della crepaccia oramai quasi chiusa, ci alziamo verso la cresta, vorremmo utilizzare il canale sperimentato la volta precedente per scendere al ghiacciaio invece delusione, è scarso di neve e non si può fare, si prosegue ancora per un poco lungo la cresta ed è come sempre Davide che si cala per primo dalla paretina rocciosa che si trova al suo termine.

E’ un tratto facile, lo seguiamo prontamente e, con calma traversiamo la distesa che porta al rifugio; attorno il pomeriggio inoltrato vela di nebbia gli splendidi monti che ci circondano, ma alle spalle l’azzurro ancora delinea le selle candide e le discese ardite che ci hanno accompagnato per tutta quella indimenticabile giornata.

            Le sei del pomeriggio sono passate quando entriamo al Marco e Rosa, l’irascibile Bianco è uguale all’ultima volta che l’abbiamo visto, fortuna vuole che sia l’ultimo giorno di apertura, pensare che l’abbiamo conosciuto quando era il primo di apertura (!), il GAL è quasi sempre fortunato quando ha necessità di rifugi.

            Altro minestrone, questa volta nulla di speciale ma è sempre cibo, Stefano si esibisce come giocoliere con un uovo al tegamino, Jr. ci racconta le sue avventure estive mentre Marco e Giovanni come sempre ci fanno ridere di tutto. La stanchezza ci fa raggiungere il camerone a tempo di record, fa un freddo glaciale e ci avvolgiamo in mille coperte; ancora risate, per di più ci è stata donata una bottiglia di vino dai gentili ragazzi che, nel pomeriggio, abbiamo aiutato in calata e siamo abbastanza euforici.

            E’ mattina, sono le 6, da mezzora siamo alzati, partenza. C’è una brutta sorpresa, neve e nebbia hanno fatto la loro comparsa, fa molto freddo e non si vede nulla; attendiamo che qualcuno si avvii poiché la discesa è un’incognita per noi, sono tre i gruppi che partono e speriamo in qualche indicazione.

Percorriamo il primo tratto di ghiacciaio andando verso nord nord-est, ci sorprendiamo alla vista degli enormi crepacci azzurri e paurosi come fauci spalancate che costeggiamo, salendo con fatica. Abbandoniamo le altre cordate che non fanno il nostro itinerario, pieghiamo decisamente verso sinistra e proseguiamo per un breve tratto in discesa; nella nebbia scorgiamo le rocce della Fortezza dove sappiamo essere la nostra via di discesa; sotto ad una nevicata che ora è molto abbondante vedo i miei compagni tesi per la preoccupazione, siamo soli.   

            Sulle rocce scorgiamo un segno rosso, Davide affronta un traverso un poco delicato tira una corda aiutato da Stefano e lo seguiamo; troviamo un altro segno, si prosegue facendo una calata; ed ecco la paura, che raramente mi coglie in montagna farsi sentire secca, non per me, ma per i miei amici, una paura che mi fa chiudere la gola e mi ammutolisce; sono momenti difficili.

            Si passa poi uno alla volta, scendiamo lottando con le dita gelate e la neve che confonde, siamo giù, non si vede molto, attorno solo nebbia fitta e vortici di nevischio ghiacciato; proseguiamo, troviamo un altro ostacolo e un’altra calata ci fa scendere ancora un poco; siamo lontanissimi dalla meta e la visibilità resta molto scarsa.

            Ancora rocce delicate e molto ghiacciate ci vedono arrivare ad una terza calata, c’è una specie di sosta e Davide prova deciso la discesa di una parete nell’atmosfera ovattata dalla neve che scende a grandi fiocchi, poi un consulto del gruppo, non è la parete giusta, Giovanni fa risalire il suo grande amico con molta precauzione, lo rivediamo poco dopo, gelato e con i capelli bagnati incollati alla fronte spuntare dalle rocce ghiacciate, tutti assieme poi aggiriamo la cengia dove ci troviamo e su di una minuscola sporgenza ci raggruppiamo. Proprio lì Giovanni ha visto un cordino, è il segnale della possibilità di un’altra discesa.

Ultima doppia lungo una parete rocciosa ed un pendio ripido che termina con uno strapiombo di nuda roccia, è la terza calata, la più lunga, 50 metri di brivido condivisa con i soliti  ragazzi stranieri della giornata precedente, sempre muniti della corda insufficiente, che ci hanno raggiunto e  chiedono aiuto.

Siamo per l’ennesima volta fortunati, mentre alla base del pendio si studia la geografia delle cartine il sole fora le nubi, magicamente la visibilità migliora rapida. Giovanni dall’alto grida che vede tracce sul fondo vicino alle rocce, ridiamo felici e sollevati.

Dopo aver traversato allegri il pendio arriviamo ad altre rocce, attorno una immensa distesa di ghiacciai solcati da seracchi, mi chiedo come faremo a trovare un passaggio; cominciamo un lungo percorso in discesa cercando di dribblare lunghi e sottili crepacci che non sono comunque insuperabili, naturalmente assicurati in due cordate.

In fondo la valle è ancora una specie di miraggio ma visibile, la neve è clemente, non troppo morbida e facile da calpestare; certo è che vedere dove si va è un tale sollievo da non badare più alle piccole avversità che si incontrano.

Passato il nevaio sono cominciati gli sfasciumi dell’Isola Persa, ora i segni sono belli e ben  visibili, abbiamo trovato persino un sentiero a scalini lastricati che ci ha fatto ringraziare la Svizzera.

Molte le occhiate e le immagini scattate alle vette che, progressivamente, tornano ad essere enormi e lontane sempre solcate da seracchi grigi ed inclementi; una sosta per riprendere fiato accostati ad un rigagnolo d’acqua limpida che ristora le gole arse, siamo stanchi.

A destra vediamo l’imponente rifugio Diavolezza, stiamo lasciando il paradiso calpestando le lingue dell’ultimo ghiacciaio che lambiscono il digradare delle valli; attorno incredibili torrioni di ghiaccio azzurro e crepacci piccoli e grandi che mostrano le viscere di quel mondo gelato. Si cammina in alternanza su ghiaccio vivo e su sfasciumi traditori che fanno scivolare e cadere malamente, avanti la valle che con uno slargo contiene il torrente creato dall’acqua del ghiacciaio tratteggiato da piccoli cespugli verdi; siamo talmente stanchi da non sentire nemmeno le ammaccature, si prosegue, ora c’è solo la voglia di alberi e prati, morbidezza e scarpe comode.

            Improvvisamente ci rendiamo conto di essere su di un vero sentiero, grandemente ricercato ed ora quasi odiato poiché rappresenta la fine dell’avventura, l’ultimo tratto è percorso sorridendo e salutando escursionisti di mezza età molto svizzeri e molto curiosi circa la nostra pesante attrezzatura.

Ecco Morteratsch, una specie di villaggio delle fiabe con la stazione del trenino, le case fiorite e l’ottima vista del versante nord del Bernina; i nostri sono più avanti, io ultima ma accompagnata dall’insostituibile Giovanni. Oltrepassiamo uno spettacolare laghetto creato dal salto d’acqua di un torrente limpido e che ci richiama la voglia di un bagno nell’acqua pulita e poi la visione di un sorriso conosciuto.

            E’ Marco con parte dell’attrezzatura al lato della strada che ci sta aspettando passeggiando felice a piedi scalzi nell’erba, dopo poco arrivano le auto cariche degli altri, cambio di abiti e taglio di dolce assolutamente italiano tra risate felici e rilassate; ora ci attende un bel pezzo di strada fino a casa, sono le sei del pomeriggio, questa salita è durata due giorni e mezzo e complessivamente quasi 28 ore di cammino.

            Un ultimo sguardo al gruppo del Bernina che ci ha dato tanto e via, ci sentiamo molto fortunati ad essere stati accolti con benevolenza da quei monti, i più grandi e difficili che io abbia mai scalato.

            Ho trovato le parole, ora mi sento meglio, so di non essere riuscita a descrivere tecnicamente la salita ma, come sempre, le emozioni hanno avuto il sopravvento

Guardo un’ultima fotografia, la mia minuscola figura sola nel mezzo del ghiacciaio sopra al Marco e Rosa; immagine emblematica, con l’aiuto del GAL sono uscita dalla solitudine ed ho assaporato l’illusione di essere un gigante.

  

                                           Marina Livella