Bernina via Normale 24 giugno 2007 Partenza alle 5,00 di mattina del sabato, Davide, Davide Jr., Sauro, Stefano, Stefano Jr. ed io; dormo per quasi tutto il viaggio sul sedile posteriore dell’auto, a tratti svegliandomi, vedo l’alba chiara e luminosa che promette una giornata di tempo ottimo. Avevo molto timore prima di partire, Pizzo Bernina mi pareva al di là delle mie possibilità e per l’ennesima volta mi convincevo e rassegnavo all’eventuale sconfitta mentre, contemporaneamente, il mio cuore esultava per questa possibilità che mi era offerta. Arriviamo a Lanzana in Val Malenco, località Campo Moro a 1970 metri di altitudine alle 9,30, la grande diga è silenziosa, ci attrezziamo in solitudine; la costeggiamo e poi la attraversiamo completamente ammirando le abetaie ed i monti che la circondano. Ci avviamo nel bosco e prendiamo un sentiero ripido che si addentra profondamente nella valle; tutto attorno boschi di abeti fittissimi e monti sempre più alti che spiccano contro al cielo che, col passare del tempo, si è fatto di un bel blu vivace pieno di nuvole candide. Il sentiero lentamente esce dal bosco e ci mostra un panorama aperto di vette frastagliate con pochi alberi radi. Torrentelli tumultuosi scendono in grande quantità dall’alto dei monti, e l’erba dei prati è sempre più scarsa e stenta. Dopo due ore, in perfetto orario, percorrendo il sentiero dei “sette sospiri”, nome romantico per la via che percorre sette dossi morenici e che di sospiri te ne fa fare molti di più, raggiungiamo il rifugio Carate Brianza, un bell’edificio basso in pietra con le ante rosse; è aperto, pochi escursionisti si godono il sole e si riposano prima di ripartire. Siamo a 2636 metri di altitudine, il sole è caldo come i nostri muscoli; non si perde tempo e si riparte per il prossimo rifugio. Si oltrepassa la forcella Forbice, al di là troviamo una grande conca con due tranquilli laghetti blu circondati dal grigio delle rocce e da una imponente cerchia di monti innevati, sappiamo di dover percorrere completamente tutto quel temibile sviluppo per arrivare al rifugio Marinelli a 2813 metri di altitudine e con buona gamba ripartiamo; passerà almeno un’ora prima di raggiungerlo. La discesa è lunga, la spianata monotona e la risalita ancora peggio, oltrepassiamo un paio di laghetti torbidi, poi con un energico sprint tra le rocce ripide aggiriamo il monte che ha il rifugio sulla cima e finalmente ci troviamo davanti al grande edificio chiuso che pare una fortezza e che ci ha sovrastato per tutto il tempo. Una breve sosta, Davide è inflessibile, si deve ripartire subito, giusto qualche scherzo, qualche foto e uno spuntino. Caratteristica la cappella in pietra con una grande croce lignea che accoglie chi arriva sull’ampio piazzale. Un’occhiata al percorso che ci rimane, è tanto, la prossima meta, il rifugio Marco e Rosa, è un puntino nella neve sui monti. Lungo percorso sulla morena saltando su massi grandi e piccoli e chiedendoci quanto tempo ancora sarebbe durato; e poi la prima neve vera tra i massi che si fanno sempre più radi e nascosti; sono le avvisaglie dell’inizio del ghiacciaio Scerscen. In alto sopra di noi il minuscolo rifugio che ci aspetta; mi ci è voluto tempo per focalizzarlo tanto era piccolo, ma dopo averlo fissato nella mente, spesso lo guardavo e cercavo di valutare quanto era lontano. Si avanza, dopo un lungo traverso siamo alle pendici del ghiacciaio, Sauro sempre avanti a fare traccia e noi dietro. Eravamo già un poco addentro al ghiacciaio quando ci siamo assicurati con le corde che Davide Jr. e Stefano portavano negli zaini; la neve era solida e la risalita del seracco non difficile, semmai solo faticosa ma comunque alleviata dallo spettacolo del panorama e dalla curiosità di indovinare come avremmo trovato il bivacco. Il ghiacciaio, pareva una spianata di neve come le altre, forse solo più candida e grande, dopo un poco però gli altri mi fanno notare le lunghe spaccature che significano crepacci e mi dicono di stare attenta a dove metto i piedi. E’ stato come se mi svegliassi veramente solo in quel momento e cominciassi a sentire un poco di ansia e di fatica vera, finalmente vedevo l’avventura. L’orizzonte diventa progressivamente un’immensità candida e molto ripida, un deserto di neve e ghiaccio che intriga e non da soste; andiamo avanti, Davide cede le tracce a Davide Jr. e si prosegue, la sella è molto sopra di noi, le soste tecniche si fanno frequenti ed io mi domando quando il cielo blu si avvicinerà un poco. In alternanza la nebbia copre e scopre velocemente il nostro orizzonte tra le grandi rocce ai lati del canalone; vediamo dei ragazzi che ci hanno seguito dirigersi verso la ferrata sulla sinistra del canale e scomparire nel grigio delle rocce scarsamente innevate tentando il percorso alternativo per il rifugio. Ci diranno poi che la salita era proibitiva per via della neve e che sono tornati sui loro passi dopo innumerevoli e vani tentativi. Nel frattempo avanziamo verso la crepaccia finale che vediamo sopra di noi; ci avviciniamo, è una lunga linea orizzontale che sbarra la strada. Stefano mi è vicino e mi spiega come superarla, un balzo e pure io sono al di là agevolmente non prima di aver osservato il ghiaccio azzurro che si intravede all’interno della spaccatura. Un’occhiata ed è come sprofondare nelle viscere del ghiacciaio, un attimo di avventura, come violare qualche cosa di immacolato e nascosto che forse non avevo nemmeno diritto di vedere. Mancano poche centinaia di metri, la neve è fonda e l’altitudine si fa sentire, avanza ora Stefano mentre i due Jr., slegati, si fanno traccia da soli. Bella l’immagine di Davide Jr. incollato alla candida parete con il suo pile giallo che avanza sorridendo verso la sella. Arriverà solo un poco prima di Stefano che ci guidava in cordata, il quale impensierito che i posti all’invernale fossero accaparrati da altri alpinisti, ci strattonerà energico fino a che sarà in vista del rifugio. La notte era una grossa preoccupazione, l’invernale era sicuramente piccolo e non in grado di contenere noi tutti ed altri alpinisti, tanto più che non avevamo preso sacchi a pelo e la notte dovevamo passarla al coperto per forza. Già immaginavamo un bivacco allucinante ammucchiati in spazi angusti, affollati e puzzolenti. Invece, guarda te la fortuna, sudati ed accaldati dalla lunga salita e dalla corsa finale ci troviamo a rimirare dall’alto un bell’edificio visibilmente rimesso a nuovo ed incredibilmente aperto, il “Marco e Rosa”, il più alto rifugio gestito di tutta la Lombardia! Ridendo soddisfatti lo raggiungiamo, siamo i primi ad arrivare lì, sono le cinque del pomeriggio e ci accolgono un bel cane husky bianco ed un paio di ragazzoni che ci dicono che è il primo giorno di apertura; ci vuole un bel momento per assimilare quella notizia, ce la passiamo da uno all’altro cercando di atterrare mentalmente sul quel piccolo terrazzino a 3600 metri al di sopra del mondo guardando affascinati il panorama di vette. Nel frattempo arrivavano alcuni giovani alpinisti che si complimentano con noi e soprattutto ci ringraziano per le belle tracce lasciate e che hanno volentieri utilizzato per raggiungere il rifugio. Realizziamo che avremo un letto e del cibo entrambi caldi, sono quasi le cinque del pomeriggio e unanimi prendiamo una decisione, dormire un paio d’ore; il rifugio è comodo ed accogliente, legno chiaro ovunque, fresco e pulito, ci assegnano un ampio stanzone, ci accaparriamo tutti i letti della parte bassa e ci stendiamo felici. Ci svegliano rudemente all’ora di cena e scendendo troviamo il ruvido Bianco, i sorrisi di Zet e degli altri ragazzi ed un ottimo minestrone di cui facciamo volentieri il bis. Tra immagini all’intrigante tramonto che preannuncia la notte, commenti sulle foto alle bellissime climbing nude appese sui muri, camomille e grappe, vecchie foto su libri di montagna e mille storie e chiacchiere si sono fatte le undici; via di corsa a letto che le cinque del mattino dopo arrivano presto. Mi sono assopita con il sorriso sulle labbra, davanti agli occhi i colori del tramonto più limpido ed azzurro che abbia mai visto ed il pensiero che forse il più era fatto; ma non era vero! Sono le cinque del mattino, velocemente ci attrezziamo dopo un breve spuntino, fuori l’alba si è già trasformata in una giornata di sole luminoso e soffia un vento forte che non ci abbandonerà più; in lontananza vediamo monti come in cartolina, il bellissimo seracco del Palù e poi una grande quantità di cime che mi confondono, sono le cinque e mezza quando ci incamminiamo lottando con il vento, abbiamo 400 metri di dislivello per raggiungere la vetta. Per cominciare una bella salita ripida su di un intonso manto nevoso visto che siamo partiti per primi, altri compiranno lo stesso percorso ma il nostro gruppo avrà sempre l’onere delle tracce. Le curve dei pendii innevati sono dolci e perfettamente geometriche e le creste taglienti; folate di vento gelido sollevano nubi di cristalli di neve che paiono le onde del mare ed impariamo subito a cercare di evitarle poiché, quando colpiscono, sono frustate inclementi. Il sole è una palla di fuoco ed il cielo limpido colora tutto d’azzurro pallido, sotto di noi un mare di nubi tumultuose nasconde l’orizzonte e lascia spuntare solo le vette più alte ed è splendida la vallata verso est segnata da seracchi profondi e scuri che paiono ferite. Guardando in alto vediamo una piccola cima, è la prima meta, un panettone di roccia e poca neve che spunta alla fine della china che stiamo percorrendo; quando siamo alla base ci troviamo una bella parete di roccia che Davide, dopo essersi assicurato, comincia a scalare deciso. Dopo breve tempo è sopra, organizza una sosta ed è pronto per la nostra salita, pochi metri di misto che ci fanno assaporare il vero inizio di quella vetta. Ci troviamo in alto chiedendoci dove sia Sauro, il nostro ottimo amico “ombra” è sempre un passo prima o dopo di noi con il suo fare dolce e sicuro; come al solito spunta silenzioso, ed insieme faremo quanto resta per raggiungere la vetta. Si prosegue per un tratto di cresta, e poi si attacca un lungo traverso che pare non finire più; continuavo a ripetermi che quello era alpinismo vero e andavo con il cervello ed i sensi aperti al massimo, la montagna è amore ed i sensi sono uno strumento che molto aiuta. Ancora avanti, dovevamo aggirare la via normale resa non fattibile da neve e ghiaccio, arriviamo, sempre quasi chini per il vento molto forte ad una bella pala candida che porta su verso la cresta. Salita ripida, mi dicono sui 50 gradi di pendenza, con tratti molto ghiacciati ed assolutamente intonsa, la scaliamo e siamo alla vetta italiana a 4021 metri di altitudine. La bufera continua che ci investe fa in modo che la oltrepassiamo velocemente senza attardarci.; attacchiamo le crestine che portano alla vetta svizzera, la nostra ultima meta, quasi piegati in due cominciamo le roccette molto affilate di una splendida sella glaciale molto sottile ed aerea ed a tratti innevata che il vento ci costringe a percorrere a volte prudentemente un poco sotto. Ancora rocce, facili ora, e siamo alla cima svizzera spoglia di segni che la contraddistinguano, sono le 9 e mezza e siamo a 4050 metri di altitudine, i due ragazzi che avevamo di fianco durante la salita sono appena arrivati; ancora non credo di essere lì ed abbraccio tutti molto emozionata Un attimo di commozione e, mentre Davide mi riprende con la telecamera, io dedico quella stupenda salita al nostro Giovanni che, per un grosso problema di famiglia, non è con noi e il resto del gruppo condivide pienamente la mia decisione. Uno sguardo al panorama riempie il cuore, la Biancograd, Argento, la Cresta Guzza, Zupò, Belleviste, Palù e poi il Scerscen ed il Roseg ed ovunque vette sempre più lontane. Attendiamo l’arrivo dei due Jr che vediamo un poco sotto, siamo il secondo gruppo del giorno in vetta (ed io la prima femmina), e ne siamo fieri, alcune foto e poi via che non ci riesce nemmeno di stare in piedi per colpa dal vento implacabile. Oltre la cima vediamo la cresta che si fa molto innevata e prosegue sottile verso una Biancograt veramente ostica. Nuovamente le rocce già viste poco prima e che ripercorriamo scendendo; la cresta rocciosa e poi la pala ed il traverso percorso sotto a degli alti roccioni su pendii temibili ed altre emozioni che per descriverle servirebbero molte pagine di carta bianca. Prima della roccia iniziale Davide si ferma e ci fa scendere da un breve ma ripido canale che porta direttamente alla base della parete rocciosa individuato dall’ottimo Sauro che l’aveva sperimentato in salita; Stefano intanto recupera la corda lasciata all’andata e che sarebbe dovuta servire per la calata. Il rientro ora è quasi facile dopo quanto è già stato fatto. Scendiamo sotto ad un sole caldissimo ma ancora torturati da sferzate continue di vento e neve gelidi. L’unico molto affaticato del gruppo all’arrivo al “Marco e Rosa” è Stefano Jr. ancora oppresso da tosse e raffreddore ma felice della bella salita appena terminata, sono le 12 e mezza, ci ritroviamo quasi storditi e molto infreddoliti al rifugio, un poco di cibo e di riposo senza fermarci troppo che si deve scendere velocemente. Il ghiacciaio Scerscen ed i suoi piccoli crepacci ci riservano alcune sorprese non molto gradite ma senza danni e quando finalmente siamo alle rocce che preannunciano il suo termine l’ultima sorpresa che ci riserva è veramente gradita; Giovanni ed Oliver il suo bel cane alpinista sono lì che ci aspettano; la sua è una breve apparizione, ci accompagna per un tratto e poi se ne corre via veloce che il suo tempo a disposizione é molto limitato, giusto un momento per regalarci alcuni dei suoi bei sorrisi. Una breve fermata al Marinelli dove abbiamo la fortuna di osservare un branco di stambecchi che pascolano nei paraggi assolutamente non intimoriti dalla nostra apparizione. L’arrivo alle auto alle cinque ci trova stanchi ma appagati dall’avventura appena finita. Il bel gruppo del GAL che ha partecipato saluta ed invita a tentare quella entusiasmante passeggiata nel deserto bianco del Bernina.
Marina Livella
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