Monte Daino 1 novembre 2006 Festa infrasettimanale, fantastico, è l’occasione per permetterci un’esperienza più, è un mercoledì qualsiasi, ma nonostante la precedente giornata lavorativa non ci precludiamo la possibilità di una vetta, e questa volta si chiama Monte Daino. Partenza quindi verso le 5 e trenta del mattino con destinazione Vellesinella sopra il bel paese di Campiglio, oramai pressoché privo di turisti. La raggiungiamo verso le otto di mattina e partiamo dal parcheggio con la prospettiva di una giornata di sole così intenso da non parere inizio di novembre. Il cielo è azzurro scuro con nuvole pesanti ma vistosamente clementi. Arriviamo velocemente al rifugio Casinei, ovviamente chiuso, e ci addentriamo sempre di più nei bei boschi che salgono dolcemente e ci accompagnano durante il primo tratto di salita. Profumo di funghi, muschio e rugiada con una varietà di colori che sanno di ruggine e d’autunno. Rossi, verdi, aranci, nocciola, tutto è violento ma d’una violenza smorta, colori che sanno di finito, l’autunno è il colore della fine di un tempo, pare crudo ma è così, l’estate con le sue tinte vere e brillanti cede il posto a quelle finto/allegre dell’autunno che già prospetta l’inverno in arrivo. La nostra meta non si vede, è lontanissima mi dice Giovanni, gli credo ed ho paura, paura di non farcela naturalmente, ma, per me è una costante e cerco di non pensarci. Si vedono comunque le montagne, e pare riduttivo chiamare semplicemente montagne quella incredibile forza della natura che pian piano ci si avvicina. Sono giganti di roccia a cui non ci si può abituare, picchi altissimi, aggressivi denti di pescecane, pareti inaccessibili bianche striate di nero che incutono un timore totale, roccia selvaggia e potente tanto che vorresti possedere un paio di ali per toccarla anche nei più remoti recessi. Certo sono fantasie ma le Dolomiti di Brenta, penso possano essere in assoluto l’ottava meraviglia del mondo e, ne sono certa, persino chi avesse avuto la fortuna di ammirare le altre sette, nel vedere il Brenta mi darebbe ragione. Intanto si cammina, l’ottimo Oliver, cane/alpinista con la bandana rossa, naturalmente in avanscoperta e noi sei dietro che ad un cane non riesci sicuramente a tenere testa. Ridiamo ed osserviamo incuriositi ed affascinati l’intelligenza e la perizia che mette nel superare gli ostacoli e seguire costantemente Giovanni ovunque egli vada. Si raggiunge il rifugio Brentei percorrendo il bel sentiero quasi piano che ricordavo da un’esperienza precedente, sosta in compagnia di alcuni ragazzi con cui si fanno quattro chiacchiere ammirando il bel merlo dal becco giallo che ci viene a trovare curioso e ci osserva dal tetto del rifugio. Il sole è caldo ma l’altitudine si sente e fa freddo. Si prosegue quasi subito che il sentiero è lungo. Durante il percorso ammiriamo lo spettacolare Canale Neri, uno dei canali più belli che si possano sperimentare, ascolto un poco gelosa i racconti di Giovanni che ha avuto la fortuna e la capacità di scalarlo, lo fotografiamo ed è il nostro argomento per buona parte di tempo. Si passa un’incredibile quantità di sfasciumi, lunghissimo percorso quasi oppressi dalle pareti immense che ci sovrastano, i Campanili, l’Alto ed il Basso, sono lì, icone del desiderio di arrampicare di ogni alpinista che si rispetti, maestose ed irraggiungibili, tanto che ti senti un “microbo” schiacciato da quella enormità di roccia incombente. Passiamo una ferratina divertente che ci porta repentinamente alla Bocca di Brenta regalandoci bei passaggi che, se non tocchi il cavo, sono vero allenamento oltre che immenso piacere, e ti senti un privilegiato a poterlo fare sulla bella roccia delle nostre Dolomiti. Non guardi solo le foto, ci sei sopra a quelle rocce, anzi, dentro, sei una volta tanto veramente parte di lei e pensarlo, in un secondo tempo, fa venire un groppo alla gola che intanto che eri lassù troppo agitata non capivi, ma dopo, ripensandoci, arrivi a chiederti cosa hai fatto di così speciale per meritartelo. Piccola sosta alla Bocca di Brenta e poi giù per arrivare al rifugio Pedrotti, altro grande ma minuscolo edificio chiuso e solitario, fuori posto tra le grandi pareti che lo circondano. Ci arriviamo sotto ad un sole battente, passiamo oltre che ci aspetta il Croz del Rifugio e poi il vallone prima della cresta che arriva alla Busa del Daino. Tante volte ci penso, tutto quel gran camminare per poter arrivare alle agognate creste, quelle che vedi giù da tutti e due i lati e non ci sono sponde ed hai paura ma pensi fatalmente che è quello che vai cercando da sempre e le affronti come se quella che hai davanti fosse l’ultima; certo, le trovi solo ad altezze rilevanti e, come i miei compagni dicono, per averle ti devi rassegnare a camminare, anzi camminare proprio tanto. Naturalmente, durante il percorso, non ci lasciamo scappare tutte le possibilità di arrampicare su ogni roccetta che Giovanni, mio insostituibile angelo, riesce ad individuare, ed è una felicità provarle e saggiare la propria abilità cimentandosi a superarle. Anche Loredana è catturata da queste piccole sfide e per un tratto ci accompagna in questa palestra di abilità con gli “scarponi grossi” da veri uomini. Lungo il vallone prima della cresta, ci dividiamo. Non è possibile far salire Oliver su roccia troppo ostica per le sue zampe di cane, alcuni provano l’appetitosa cresta nord-ovest mentre noi facciamo il percorso basso e prendiamo la via che sale alla cresta sud-sud ovest verso la cima. Scattiamo foto incredibili delle cime che ci circondano incollate ad un cielo blu pervinca che non pare vero, fa freddo ma non ci si bada, ora l’urgenza è arrivare alla vetta. Non può esistere percorso, Giovanni ci insegna, che non porti ad una vetta, non è una gara se non con se stessi, non è null’altro che agognare il punto più alto che si possa raggiungere e fare di tutto per arrivarci. Alcuni forse possono pensare a Dio, io non lo so fare, ma in tutti i casi è infinitamente bello provare ad arrivare più in alto di tutti gli altri, cercare di raggiungere le nuvole e quasi vantarsi per aver toccato rocce che normalmente pochi osano sfiorare pagando il solito prezzo di fatica vera e sentendosi quasi psicologicamente respinti da quei monti che pare non abbiano nessuna voglia di averti tra i piedi. Finiamo il percorso e di riuniamo dopo aver fotografato cime su cui ci divertiamo ad inventare similitudini. La fantasia galoppa ed a quasi tremila metri è amplificata, tanto che riusciamo a vedere uccelli vivi nel nido che chiamano per il cibo tra una vetta e l’altra, è proprio vero, siamo “drogati” dalla montagna! Vediamo i nostri compagni già in vetta, noi finiamo tutte le paretine possibili e ci riuniamo godendoci il pezzo di cresta che porta alla cima, ed è la ciliegina sulla magnifica torta con cui abbiamo banchettato. Non pare vero essere veramente arrivati alla vetta del Monte Daino, il silenzioso e dolce Andrea, Claudio, Giovanni, Loredana, Oliver, Stefano ed io soliti matti cercatori di emozioni. Senza fiato ammiriamo lo spettacolo del panorama che è infinito e guardare il percorso fatto, lunghissima gimcana tra giganti di roccia, da i brividi. Ci complimentiamo vicendevolmente, è l’una del pomeriggio e siamo a 2700 metri circa d’altitudine, facciamo una piccola sosta stagliati contro un limpidissimo cielo blu, un poco di cibo e qualche chiacchiera. Si vede il lago di Molveno incuneato nella vallata con i paesi attorno ed oppresso da monti altissimi. Poi si comincia il viaggio a ritroso riprovando la bella cresta come fosse cosa nuova, altre paretine in discesa, più difficile ma molto allettante ed i soliti monotoni valloni di sfasciumi candidi fino alla sella e poi nuovamente giù salutando i rifugi silenziosi. Piccola sosta con nuove foto di gruppo alla sella, sarà ma di immagini di noi non ne abbiamo mai abbastanza quasi che fermare l’attimo sia una necessità impellente perché la felicità rimanga impressa oltre che nelle menti anche in fotografia. I sorrisi sono mille e la felicità è tutta attorno, persino Oliver corre tra di noi come a comunicarci quanto questa giornata sia anche per lui motivo di contentezza. Nuovamente la ferratina che cerchiamo di ignorare ma ormai la stanchezza si fa sentire e talvolta ci serviamo del provvidenziale cavo d’acciaio. Piccolo incidente, Oliver si ferisce alle zampe con le rocce ed i suoi polpastrelli teneri e delicati sanguinano. Giovanni preoccupato guarda il danno e vede che è di poco conto ma il suo viso preoccupato mi intenerisce, è il suo cane ed, a ragione, lo ama molto. Si rivede il Canale Neri, altre foto e mille progetti. Soprattutto sogni, chissà se io sarò mai in grado di fare una scalata di quel genere, Giovanni è indeciso ma ha una incrollabile fiducia nelle mie possibilità. Sono stanca ma riesco a fare gran parte del percorso con il naso all’insù, quasi bevendo le immagini di quegli incredibili giganti. Si arriva alla chiesetta del rifugio Brentei che è il simbolo triste di molte morti in montagna, da li nuovamente il sentiero pianeggiante investiti da un vento gelido talmente forte da spaventare. Non ci lascia fino all’inizio del bosco e le sue folate inclementi pare ci vogliano spingere via da lì quasi ci abbiano permesso per troppo tempo di godere arbitrariamente di quell’ambiente. Arriviamo alle auto che il tramonto sta per iniziare, ci mettiamo in viaggio, l’ultima immagine che ricordo è una luna tonda e sfacciatamente luminosa che fa capolino nel cielo molto prima che il buio sia giunto quasi a voler dimostrare che è lei la padrona. Marina Livella
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