IL CASTELLO DELLE STREGHE

Cevedale        17 settembre 2006

Quando, questa mattina, mi sono svegliata nel mio letto, non ho capito subito dove mi trovavo e mi sono sentita persa, il fatto è che dentro di me ero ancora sul Cevedale,o meglio sulla sua vetta minore detta Zufallspitze.

La storia è cominciata alle 7 e 30 di sabato sera, sotto una pioggia battente siamo partiti per la Valle di Peio chiedendoci cosa diavolo stavamo facendo, le previsioni non erano però pessime per il giorno dopo e Carlo, Giovanni ed io eravamo determinati a tentare la salita.

Arrivati alla Malgamare abbiamo deciso che, data l’assoluta mancanza di ripari, l’unica soluzione era dormire in macchina, pioveva a dirotto. Nessun problema, alle undici si dormiva già, tra risate e progetti per l’indomani.

Sveglia alle 5 e 30 di mattina, il cielo pareva clemente, quindi la decisione, partire comunque. Certo, l’incognita era grande ma eravamo molto determinati, tantopiù che era il giorno del compleanno di Carlo, e quindi impossibile non festeggiarlo con una bella salita, e quella si prospettava una salita con i fiocchi.

L’alba si fece vedere a stento, troppe le nubi che non si capiva dove andavano veramente, intanto la salita, dopo un’ora e mezza il rifugio Larcher a 2.607 metri, addormentato e circondato da un panorama di nubi bianche e basse, e noi, torturati da una pioggia sottile e persistente. Piccola sosta e si riparte per la Forcola. La meta è la selletta che da il via alla cresta est che porta alla vetta. Voltandoci, talvolta, sorprendevamo il cielo blu soffocato da nubi bianche e grigie scuotersi e mostrare vette inaspettate che, ritagliando dei piccoli spazi, ci provocavano meraviglia ed incredulità, ombre di monti che non dovevano, forse, essere lì. Non pareva esistere più orientamento.

E’ andando verso la sella che si nota un’altra ombra. Sulla cima di una roccia aguzza, inaspettatamente, si scorge un camoscio. E’vigile, ci osserva attento, non ci teme, vuole capire chi siamo e cosa vogliamo, immerso nella nebbia guarda le nostre mosse, deve essere un anziano, ha un corno spezzato e non pare avere una dimensione vera, all’improvviso scompare, se non fosse per un’immagine fotografica penseremmo di averlo sognato.

Si prosegue, si attaccano i primi sfasciumi e le prime roccette. La via normale non ci basta ovviamente, pare che la cresta est sia fattibile, ma, come antipasto, si devono provare tutte le roccette che la montagna ci regala facendo la via diretta verso l’inizio della cresta vera e propria. E via, quindi, su per quello strano ripido sotto un vento ed una pioggia che rapidamente si trasforma nella neve che ci abbandonerà solo a tratti per tutto il percorso.

            Ecco la forcella e poi la cresta che ci porterà all’anticima. Ormai tutto è neve intorno e la nebbia che ci avvolge fa in modo che ovunque sia bianco.  La via è lunga, tanto che arrivo a non capire più cosa succede, certo, sono allegra ed ho tanto da raccontare, ma il fiato è corto e comincio a faticare veramente. Giovanni è già un poco che dice che la vetta è vicina, l’anticima è lontana oramai, ma ancora la vetta non si fa vedere. Il fatto è che non è facile orizzontarsi su quella montagna immensa completamente sommersa dalla nebbia tanto che si arriva a toccare il ghiacciaio che sale al nostro fianco sotto la parete ovest e si fatica ad abbandonarlo e ritrovare la via per la cresta. Ombre, tutto è ombra, noi, le montagne, nulla è reale, pare di vivere in un sogno.

            A mezzogiorno siamo in vetta, i miei ottimi compagni di viaggio hanno trovato la via, tra crepacci grandi e piccoli e difficoltà che non hanno che aumentato la voglia di arrivare. E’ proprio vero quanto dice Giovanni, più grande è la fatica e più è grande la felicità alla meta.

            La vetta con la sua croce, piccola e incrostata da un ghiaccio che volta incredibilmente tutto da un lato, come se indicasse un posto preciso, un’istantanea gelata dal vento bizzarro che ha deciso di ridisegnare con il ghiaccio i contorni di una croce e trasformarla in qualche cosa di diverso.

            Ci adattiamo a scattare istantanee sotto un vento gelato e vorticoso, liberi da quanto avevamo potuto lasciare sotto per arrivare a quella minuscola vetta più leggeri.

Nonostante la nebbia ed il tempo inclemente eravamo lì, la nostra determinazione lasciava stupiti noi stessi come fossimo slegati da tutto, persino dalla nostra volontà.

Abbiamo intonato un canto di buon compleanno a Carlo con la voce dei 3.757 metri, ovviamente stonati ma sinceri, e poi giù che lì era impossibile fare sosta.

Si ripercorre la cresta per arrivare in un posto più riparato e rifocillarci accoccolati per proteggerci dal vento, ridere e commentare la cima appena lasciata, poi si riparte che ci aspettano lunghe ore di discesa.

Neve, sempre neve e nebbia costante che confonde il cielo con la terra e stravolge le tracce.

Lasciato la neve alta e ritrovato roccette e sfasciumi si fatica non poco a ripescare il sentiero del rientro, non vedendo assolutamente nulla della vallata sottostante nascosta dalle continue turbolenze del cielo.

Si salta da una roccia all’altra cercando di indovinare con un’occhiata quali sono le più stabili e sicure ed evitando soprattutto la neve che le ricopre solo a tratti.

Il candore quasi immacolato, infatti, scendendo si fa più rado fino a scomparire lasciando il posto a rocce ed erba arsa dal freddo intenso. Tutto è duro lassù e ti pare che la fatica che senti dentro ne sia la naturale conseguenza. Guardando in alto ormai c’è solo il canale sassoso e spolverato da poca neve e la piccola croce dello Zufallspitze, purtroppo non si vede più, nascosta dalle nubi,e già se ne sente la mancanza.

Arriviamo al rifugio Larcher come naufraghi verso le quattro del pomeriggio, infreddoliti dalla pioggia che ci ha costretto a sfoderare i nostri ombrellini Himalayani per proteggerci meglio.

Si finiscono i festeggiamenti del compleanno di Carlo con fette di torta Sacher e vino bianco nella assoluta solitudine di quella sala di rifugio che sa di addii, di disinfettante e di chiusura invernale.

Finalmente la valle, cosparsa da abeti radi, rocce e cespugli che tratteggiano la discesa.

E poi l’arrivo alla macchina con uno strano senso di vuoto nello stomaco, già mi aspetto lo smarrimento del giorno dopo, sempre più intenso tanto più è entusiasmante l’esperienza del fine settimana precedente. Davanti agli occhi, persistente, il grande bianco assoluto che abbiamo vissuto e le ombre, tutte le ombre.

                                                           Marina Livella