IL CASTELLO DELLE STREGHE

Cresta Castellaccio         15 ottobre 2006

Sono di nuovo qui, è notte, notte troppo tardi probabilmente, a scrivere di noi, racconto dei soliti matti che partono alle sei di mattina per andare alla ricerca di emozioni e fatica.

            Per la precisione domenica Tonale, meta fino all’arrivo non sicura per il tempo  piovigginoso ed incerto. Io ero comunque talmente contenta di partire da trovare irrilevante la destinazione, c’erano i miei compagni che progettavano viaggiando mentre io dormicchiavo e ridevo allo stesso tempo ed ero felice.

            Decisione raggiunta finalmente, la cresta del Castellaccio.

            Alle otto di mattina siamo al piazzale della funivia in Tonale, ci incamminiamo su per la pista che va al Paradiso, poi deviamo a destra per il versante ovest del Castellaccio, è buio, io sono stroncata dall’influenza, così pure Giovanni ed anche Davide non è al meglio. Si va su con molta più calma del solito, io sono atterrita dalla paura di non farcela infatti ho dei terribili cali di energia e sono stanchissima ma resisto, è troppa la voglia di andare. A volte mi viene da pensare di essere matta.

            Sorpassiamo una serie di pozzanghere enormi e poi su per quella salita senza fiato che ci deve portare alla selletta della cresta ovest.

            Con poche parole si raggiunge la sella, oramai la pioggerella è terminata ed è rimasto solo un cielo grigio con sprazzi di un azzurro ceruleo che ci rassicura sull’andare della giornata, sarà bellissima, e questa certezza ci dona la spinta che ci mancava per fare quanto in programma.

            Si arriva alla cresta ovest, io con poco fiato ma molta determinazione, non sarà un poco di tosse e raffreddore a fermare la bella gente del GAL, impossibile, siamo umani, certo, fragili finché vuoi ma implacabilmente duri con noi stessi.

            Alla cresta le nostre ottime guide Davide e Giovanni decidono di scendere per un tratto nel vallone che strapiomba per poi prendere la cresta sulla sinistra che devia verso il Castellaccio.

            Non facile la discesa, erba lunga, bagnata e terribilmente scivolosa che è il tappeto che calpestiamo per una buona metà della valle. Ci si aggrappa a quei ciuffi di erba che paiono cementati nella terra, duri come la roccia che vedono da quando sono nati e che forse cercano di imitare con quei loro fili  resistentissimi che paiono fatti di granito.

            Grazie comunque a quella distesa giallo-verde e fradicia ma provvidenziale che ci permette di raggiungere abbastanza velocemente le rocce che intersecano il sentiero tracciato.

Sentiero che non si percorre, ovviamente, in quanto a noi, cercatori di rogne attira un bel canalino sommerso dalla neve. Già la neve, che abbiamo trovato quasi subito dopo la partenza e che è difficile, troppo poca per i ramponi ma troppa per sentire il passo sicuro durante l’interminabile traverso che ci tocca per arrivare alla sella prima e sulle rocce dopo.

            Finalmente si sale il canalino, lo festeggiamo felici in quanto primo della stagione e ci auguriamo che ce ne siano molti altri prossimamente. Certo è cortissimo e non abbastanza scosceso, tanto che io posso divertirmi a fare traccia senza stancarmi troppo, il mio fisico regge ed ora so che probabilmente arriverò in fondo senza troppi problemi. 

Finito il canale si tolgono i ramponi, ma poi io, inesperta, li rimetto dopo poco, ho una paura maledetta delle rocce appena ricoperte dalla neve, scivolose ed infide. Siamo quasi al passo, si fanno un po’ di roccette, godibili come sempre, e finalmente vediamo il passo del Castellaccio a circa 2950 metri.

Tolgo definitivamente i ramponi  che peraltro rimpiangerò per tutto il resto del percorso.

            Siamo al famoso attacco del Sentiero del Fiori, via che d’estate è meta di una miriade di escursionisti. Ora però all’attacco non c’è fortunatamente nessuno, la neve è un ottimo deterrente ed io riconosco il posto dove l’estate precedente ho sperimentato il bel percorso con un gruppo della Società Alpinistica Ugolini.

Da quel punto la vista è stupenda, i laghetti della Presena con l’attacco della funivia e tutta la valle che sale e la corona di monti attorno con lo sfondo di un cielo azzurro ed un sole accecante.

            Fotografiamo i resti militari che ci attorniano, triste è vedere il muro a secco che si innalza al passo ed i poveri ruderi del villaggio costruito durante la Grande Guerra da ragazzi che hanno vissuto l’esperienza più disastrosa che possa mai toccare in vita.

            Camminare su di quei resti non è un’esperienza facile, ti senti un’estranea e ti pare di violare qualche cosa che non ti appartiene. Passi in punta di piedi, quasi con timore, ponendoti un sacco di stupide domande prive di una valida risposta, la prima è senz’altro come facevano a sopravvivere a tremila metri d’altitudine, pare impossibile. Mi sono ritrovata a chiedere mille cose a Giovanni, che di questi argomenti è grande conoscitore, ma finendo comunque con piccole frasi malinconiche che paiono sempre magri epitaffi.

            E’ troppo difficile, soprattutto in questi tempi di guerre continue che ci giungono da ovunque nel mondo, asserire, senza apparire ovvi, quanto sia inutile e spaventosa la guerra, ma dopo una giornata passata a toccare pezzi di granata e vedere attorno residui di guerra ti pare impossibile non farlo e ti senti una privilegiata a non averla vissuta di prima mano e poterne parlare solamente.

            Si mangia qualche cosa, il vento è fortissimo ma noi ci ripariamo dietro al muro a secco, la giornata è luminosissima ed il sole è addirittura violento, ci rimettiamo in cammino, sono le 12,30 e vogliamo provare la cresta per arrivare alla vetta del Castellaccio.

            Fino ad ora il G.A.R.R.L., così ci ha identificato Giovanni scherzando, è stato regolare, solo piccole deviazioni da nulla, qualche roccetta, poco sentiero normale, ma nulla di che, ora però i miei compagni iniziano qualche cosa di meglio, la cresta.

            Ricercatori di rogne, questo è poco, si attacca la cresta sud senza saperne nulla ed è grande  eccitazione anche se, ogni tanto, dal gruppo si levavano voci che pongono quesiti metafisici del tipo “chi siamo, da dove veniamo e soprattutto, cosa diavolo ci facciamo qua, appesi su rocce improbabili e nemmeno troppo sicure!”.

Si procede con calma e senza fiato corto, mettendoci tutta l’attenzione e la perizia possibili per non commettere errori di cui ci pentiremmo. Si sperimentano placchette e crestine per me abbastanza difficili anche se dagli amici provengono sempre suggerimenti ed aiuti.

            Certo, a volte si deve tornare indietro o fare deviazioni non facili, ma tra su e giù, talvolta sotto il sole cocente e talaltra intirizziti per lunghi passaggi su lati coperti dalla neve non sciolta perché posti in ombra,  giungiamo alla vetta.

            Una emozione irripetibile mi è stata poi regalata dai miei grandi amici i quali si sono fermati per permettermi di arrivare alla cima per prima.

            Io con la mia tosse terribile e una spossatezza che mi ha fatto credere in più di un momento di non farcela, mi sono inerpicata tutta orgogliosa su per i pochi massi che restavano e non ci credevo ancora mentre mi venivano scattate della fotografie; solo quando sono arrivati anche Davide, Giovanni, Marco e Stefano ho realizzato che era vero, ci ero arrivata!

Altra vetta a 3100 metri circa di altitudine, piccola, con una bella croce di legno tutta rovinata e storta, giusta per il luogo malinconico su cui deve vegliare e che richiama alla mente solo disastri e guerra.   

Poco tempo per complimentarci a vicenda e poi giù che il percorso della cresta nord è tutto da scoprire, rocce che in discesa paiono ancora più difficili anche per via dell’onnipresente neve.

Traversiamo passaggi complicati che mettono in difficoltà, ma, finalmente arriviamo al Passo del Dito dove ci ripromettiamo di tornare a percorrere, quando sarà il momento, il bel canale che scende a precipizio sul versante opposto.

Non è finita, percorriamo un ghiaione assolutamente interminabile, per arrivare agli impianti ed ai bellissimi laghetti che riflettono come specchi i monti circostanti, e cercando di esorcizzare la fatica della discesa parliamo del più e del meno.

La stanchezza è infinita ma l’adrenalina procurata da questa esperienza fa in modo che non la si senta molto. Ora l’unico desiderio che mi riempie la testa è poter smettere di tossire.

Siamo agli impianti, piccola sosta sotto al sole nell’assoluta solitudine commentando la  grossa stonatura degli impianti di risalita, tutto quel cemento ed acciaio che deturpa la bellezza di quelle montagne e che ha come unico compito regalare comodità ai turisti. E’ ovvio che il nostro gruppo dissenta completamente dall’utilizzo di tutta quella “roba moderna”.

Si percorre il lungo ghiaione che termina in prato che, ricoperto di neve, diventerà una della più godibili piste da sci dell’arco alpino ed arriviamo all’auto.

I cinque ricercatori di rogne sono atterrati sani e salvi.

Si festeggia con dei pezzi di torta e si riparte.

La vita e la morte sono state la colonna sonora di questa entusiasmante esperienza che concludo rammentando un vecchio detto dei pellerossa Arrapaho che mi permette di ringraziare il mio angelo personale e grande amico Giovanni.

Alla prossima.

                                                          Marina Livella