Dal Tresero al SanMatteo 23 luglio 2006 L’attimo che ricordo meglio è quando, tornando, ho finalmente visto nitidamente il rifugio di Passo Gavia. Erano passate 14 ore dalle 3 del mattino che avevano visto il nostro avvio. La partenza da casa il caldo pomeriggio precedente alle 14 il viaggio scorrevole fino al passo, l’incontro con il resto del gruppo CAI di Lumezzane, l’atmosfera calda, felice e conviviale di quelle persone che non attendevano altro che “partire” per una nuova avventura montanara, tutto perfetto. La sicurezza del percorso era data da Davide e Giovanni che, il mercoledì precedente, avevano sperimentato tutto il giro decidendo i particolari ed i tempi della gita sul posto. Certo, gli sguardi erano rivolti al cielo, come sarà domani, la domanda di rito di chiunque cerchi la montagna. Si passa il resto del pomeriggio chiacchierando, bevendo te caldo e scambiandosi esperienze. Particolarmente felice l’incontro con l’Ermelinda, era quasi un anno che non la vedevo e, guarda te, è li, con i suoi begli anni a parlare dell’avventura del giorno dopo, donna d’acciaio come tutte quelle rare che bazzicano le grandi altezze. L’invidia era ai massimi livelli, veramente! Ci si prepara per la notte, e non si parla di rifugio tra lo zoccolo duro del GAL, assolutamente, la notte si passa sotto il portico della caratteristica chiesina poco di fianco al rifugio tutta di pietra ed esposta ai quattro venti, altrimenti che avventura è! E che venti ci aspettavano, eravamo appena sistemati, verso le dieci forse, che è cominciato il temporale tanto sperato, che si dice in giro che poi, il giorno dopo, sia bellissimo. Ci siamo ritrovati a ridere come matti accoccolati dentro ai nostri sacchi a pelo con una pioggia battente che di più non si può, condita da lampi e tuoni da manuale. Il cielo dava il massimo di se ed io mi sono addormentata sulla dura pietra di quella chiesa con nelle orecchie le turbolenze del cielo ed in testa l’immagine delle montagne che, mi avevano detto, avremmo raggiunto il giorno dopo. L’ultimo mio pensiero, giuro, è stato che non sarebbe stato assolutamente possibile arrivare lassù per la mia piccola ed inesperta persona. Ora so di essere veramente molto determinata, ma la storia continua. Ore tre del mattino, ci pare di aver dormito 10 minuti ma non importa, si parte, la visione della nostra meta è fissa nella mente ed è l’unica cosa che mi guida, nella prima parte del cammino, oltre le luci delle nostre pile frontali. Alle prime luci dell’alba di vedono grosse nubi che coprono il cielo ma si va avanti, siamo troppo determinati. Il sorgere del sole ci illumina mentre camminiamo verso la prima cima, il Tresero, è lì che ci sovrasta maestoso con i suoi 3600 metri di altezza. Siamo nei tempi prestabiliti, e sono i primi raggi di sole che ci vedono salire l’attacco delle rocce aguzze della cresta. Belle rocce, anche se un poco instabili, è meglio saggiarle bene prima di attaccarsi, che spesso sono cedevoli. Ma la cresta è veramente stupenda, il panorama una continua meraviglia ed i miei compagni di cordata, Giovanni e Marco, una fonte di risate incontrollabili. Siamo in tredici, strano numero vero, 4 cordate da 3 più un solitario, Sauro, unito all’ultimo momento. Le sorprese sono sempre benvenute per noi, tutto ciò che è amicizia è meraviglioso, ed infatti è stato il sale che ha condito questa salita con i suoi modi cortesi e il suo apparire e sparire che oramai sappiamo da tempo apprezzare. Grande salita, veramente, una cresta insuperabile che puoi a volte evitare, certo, c’è una specie di sentierino abbastanza agevole, ma se sei un vero uomo (!) segui Giovanni che lui ti fa provare i brividi che cerchi da tempo scovando delle eccitanti alternative sulle roccette. Su e giù per quella cresta fino alla cima condita da complimenti festosi, ma è solo l’antipasto, sono le 9 di mattina e c’è ancora tutto da fare quindi si riparte subito. L’arco delle cime e delle creste è talmente lungo che spaventa, il tempo regge bene, il sole illumina il cielo e le fotografie si sprecano. Tra una aguzza cima e l’altra si scorge il S. Matteo con il suo ghiacciaio personale, vederlo così vicino non spaventa nemmeno più tanto e poi, con un paio di ramponi ai piedi cos’è che si può temere, nulla. Abbastanza rapidamente ci si avvicina sempre di più, ogni tanto uno spuntino, ma poca roba, non c’è tempo, il cielo pare sempre meno favorevole, ma siamo disposti a tutto. Si raggiunge la piccola cima Pedranzini e da lontano scorgiamo il resto del gruppo CAI, stanno attraversando il primo ghiacciaio che noi già abbiamo lasciato da tempo, li sentiamo di frequente con le radio che abbiamo a disposizione. Ci ammiriamo a vicenda e ci sentiamo vicini nonostante la distanza che ci separa. La fatica è grande e si sente ma non ci si bada, la violenza della fatica è mitigata dalla violenza più forte delle sensazioni che si sovrappongono, il tempo che si amplifica e le ore non passano, pare che il tempo si fermi e ti conceda “tempi supplementari” che la tua età anagrafica desidera da tanto. Un altro dei poteri della montagna è fermare i momenti, sarà la fatica o la meraviglia ma l’orologio fa brutti scherzi, pare sia fermo e ricominci a girare solo quando sei giù tra i comuni mortali. E quindi tempi lunghi di silenzi in cui i pensieri vanno per conto loro ed anche le malinconie ed i perché paiono stranamente sciocchi e superabili, molto di più delle “paretine” che devi affrontare costantemente. In quei momenti ti pare di avere le risposte a tutto e la realtà assume un aspetto che in parte desideravi ma che non ti aspettavi certamente. E’ quasi ora degli agognati ramponi, abbiamo toccato poca neve ed il desiderio di confrontarsi con “la cosa bianca” è grande. Il ghiaccio e la neve hanno un fascino particolare che non si sa spiegare. Pare molto affidabile ed invece è un killer, ti pare che tutto il bianco abbagliante sia li solo per accoglierti e coccolarti ed invece è un amante pericoloso. Si raggiunge il fondo del S. Matteo, si devono superare un canalino e la salita del ghiacciaio e poi ci siamo. Arrivati alla salita scorgiamo poco lontano un ragazzo, pare li per caso, appoggiato ad una roccia fuma tranquillo una sigaretta! Sarà un miraggio, penso, forse è stato catapultato li con il teletrasporto da una località turistica di sotto, invece no, è reale, ed anche la sigaretta, mi avvicino ed è solo lì ad aspettare i suoi compagni, elemosino due tiri e si fanno due chiacchiere sotto gli sguardi disgustati dei miei compagni di cordata, odiano le sigarette. Matteo, ragazzo simpatico! Si riparte, si fa quel godibile canalino di una manciata di metri e si salutano i compagni di Matteo in nostra attesa per scendere. Quando siamo all’attacco del ghiacciaio sotto il S. Matteo, improvvisamente sentiamo un grido, “attenzione rocce” ed un nugolo di sassi, grossi e piccoli, comincia a rotolare giù, rimango affascinata come un serpente da quella scena e ci vuole un bel momento per capire che mi devo spostare. Dobbiamo avere un angelo personale perché la scarica si esaurisce molto distante dagli altri e da me. Piccolo brivido certamente da non sottovalutare. La rampa finale la pensavo più ostica, invece, supportata dai ragazzi, ho percorso il tratto finale allegramente, ammirando crepacci che tagliavano il ghiaccio ed avevano sapore di fiaba, spaccature immacolate traboccanti di stalattiti di ghiaccio e di azzurri che facevano male agli occhi a guardare. Finalmente la cima, croce costellata di bandiere e adesivi, allegra nonostante la sua immagine, icona perennemente triste. Il tempo peggiora, senza fermarci le cordate si organizzano per la discesa. Noi, buoni ultimi, attendiamo il nostro turno scattando immagini, bella la discesa del ghiacciaio, molto più gustata perché deja-vù. Quando siamo al canalino il tempo si guasta definitivamente. Ma è un altro motivo di allegria, è una godibile pioggia di grandine, chicchi grossi, bianchi e durissimi di ghiaccio che pare di mangiarla. In un attimo ne siamo invasi, abiti, capelli, ovunque pieni di quelle piccole perle di montagna. Si scende quasi di corsa con la certezza che ora di debba andare svelti per forza di cose. Si raggiungono le altre cordate, ora ci tocca una enorme lunghezza di crestine bagnate ma non particolarmente difficili. Di nuovo su e giù per rocce, toccando con mano luoghi che non sono altro che nidi l’aquila, arroccati come fortezze, fieri di loro stessi e quasi irraggiungibili se non da gruppetti di sognatori che manderebbero la loro vita ed i loro pensieri all’inferno pur di arrivare lassù. E’ un vortice, si arriva a pensare che non c’è nulla di più importante al mondo, quello che si ha in cambio di fatica forte, quasi intollerabile e di male dappertutto è indescrivibile; solo sperimentare ti fa capire ed arrivare in alto, non solo materialmente ma mentalmente e raggiungere qualche cosa che non ti aspettavi assolutamente. Pioggia, pioggia battente e continua. Giovanni tira fuori l’ombrellino Himalaiano, che dice gli sherpa usino nelle altezze più estreme; io non mi fido, nonostante sia nello zaino. Purtoppo ho bisogno di toccare le rocce rese scivolose dall’acqua che scende impietosa perché la mia imperizia è ancora grande. La stanchezza si fa sentire, Marco ha una caviglia malmessa da una storta ma è forte, non un lamento, e così Franco e Samuele, tutti uomini giganti che sfidano la montagna che già una volta li ha toccati con la sua mano più cattiva. Ma non c’è problema, ora si va avanti e semmai ci si pensa domani agli indolenzimenti di muscoli e giunture che ora non c’è tempo, bisogna assaporare le felicità che a questo ambiente molto ostile, con grande fatica, riesci a rubare. Siamo alla fine, sempre sotto una pioggia fine arriviamo al passo. E non c’è molta sorpresa nel vedere che un grosso drappello dei nostri compagni del CAI ci ha aspettato. Quindi baci, abbracci e complimenti conditi da pane, salame, formaggio, vino e dolcetti per dimostrarci il loro affetto ed apprezzamento per la nostra camminata. Si torna a casa, domani, domani qualche cosa si farà, ci si sente allegri ma c’è nel fondo l’enorme voglia di ricominciare, di tornare in alto e di riprovare la vertigine delle grandi altezze. Marina Livella
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